Libero, 6 settembre 2019
Come sarà il museo della lingua italiana
Ma come si fa a fissare in un museo una creatura di per sé mobile, cangiante e immateriale come la lingua? Non si corre il rischio di imprigionarla, di reificarla (nel doppio senso di ridurla a cosa e farne oggetto del reato) e, in fin dei conti, di ucciderla? È convinto del contrario il linguista Giuseppe Antonelli che ha lanciato in un libro l’affascinante idea di creare, per la prima volta, Il museo della lingua italiana (Mondadori, pp. 366, euro 33) e ora la ripropone al Festivaletteratura di Mantova dove, attraverso incontri con esperti di ogni disciplina e suggerimenti da parte di comuni cittadini, intende porre le basi sulle quali erigere questo “monumento” dedicato all’idioma patrio. «Lo spunto», ci dice Antonelli, «viene da una grande mostra sulla lingua italiana realizzata nel 2003 alla Galleria degli Uffizi con la direzione di Luca Serianni, ma anche dal museo della lingua portoghese a San Paolo in Brasile, una struttura su quattro piani che in meno di dieci anni ha registrato 2 milioni e mezzo di visitatori. In Europa musei dedicati a lingue nazionali non esistono ancora: l’Italia potrebbe fare da battistrada». Alla base dell’iniziativa c’è la constatazione che la storia della nostra lingua si lega in modo indissolubile alla storia dei nostri costumi e della nostra cultura materiale e spirituale; essa è parte integrante della civiltà ed evolve con essa, e tocca tutti gli ambiti in cui il sapere e il vivere umano si dispiega: dall’arte alla musica, dalla moda allo sport, dalla scienza al teatro. Ciascuno di questi settori ha fornito un “pezzo nuovo”, grazie al quale l’italiano si è fatto ed è evoluto.
QUINDICI SALE
E allora è lecito chiedersi: quali oggetti, libri, documenti, ma anche sculture, pitture, abiti, strumenti di uso quotidiano e apparecchi tecnologici dovrebbero confluire nel museo? Antonelli intende raccogliere 60 pezzi distribuiti in quindici sale espositive, strutturate su tre livelli corrispondenti a tre epoche: italiano antico, moderno e contemporaneo. «Per quanto riguarda la parte antica», ci dice il linguista, «credo sia imprescindibile il Placito Capuano, la prima testimonianza in volgare, conservata presso l’Abbazia di Montecassino. E poi il fiorino d’oro, la moneta che nel ’300-’400 ha fatto girare non solo l’economia ma anche la lingua fiorentina in Europa: la parola banca, ad esempio, che indicava la panca dei cambiavalute, è stata esportata dai fiorentini in tutte le lingue». Al secondo piano, relativo all’età moderna, Antonelli non rinuncerebbe mai alla «carrozza, il simbolo del dinamismo della lingua italiana che si muove insieme ai nuovi mezzi di trasporto»; quindi al «baule degli emigranti, in quanto l’esperienza dell’emigrazione indusse molti nostri concittadini tra ’800 e ’900 a misurarsi con l’italiano e scrivere lettere ai parenti rimasti in patria»; e ancora al «pallone dei Mondiali del ’34 perché la cronaca in radio di quelle partite permise a moltissime persone, anche analfabete, di parlare un italiano vivido e fluido». Da ultimo, «l’età contemporanea potrebbe essere sintetizzata dal logo di Lascia o raddoppia, la trasmissione tv che permise di diffondere la lingua attraverso la forza delle immagini». A inaugurare e chiudere il museo Antonelli pensa a due motorini della Piaggio: «Il Sì evocherebbe la parola simbolo del nostro Paese che Dante definiva la terra “dove ’l sì suona”; mentre il Ciao indicherebbe un saluto che da territoriale è diventato internazionale». Ma un museo della lingua italiana, oltre a raccogliere oggetti, permetterebbe di dare spazio e voce anche alle tante parole che noi italiani abbiamo creato ed esportato nel mondo. Si pensi ai vocaboli da noi inventati nell’ambito dell’arte e oggi ripresi ovunque, in modo identico o con qualche piccola variazione: da bassorilievo a chiaroscuro, da piedistallo a disegno, da prospettiva ad architetto. E poi alle parole della musica: concerto, maestro, sinfonia, andante, adagio, allegro, viola, violino, violoncello, libretto, tenore, perfino fiasco sono ormai termini globali. E si pensi al dizionario della cucina: parlano italiano in tutto il pianeta piatti come maccheroni, gnocchi, ravioli, tortelli, spaghetti, pesto, risotto, mozzarella.
I VOCABOLI DELLA MODA
O alcuni vocaboli della moda quali cappuccio, stiletto, profumo. Senza considerare lo sport, dall’italiano «diporto», e la scienza: «Il termine pila, creato da Alessandro Volta, si afferma in varie lingue, così come la parola neutrino, nata dal gruppo di lavoro di Fermi. È la dimostrazione che, dovunque l’Italia riesca a raggiungere risultati eccellenti, di pari passo la lingua legata ad essi si afferma». Scoperti i contenuti, resta la domanda: dove e quando nascerà questo polo della lingua italiana? «L’idea di fondo», spiega Antonelli, «è realizzare un museo diffuso che abbia un suo centro. Per la sede centrale Firenze sarebbe la candidata naturale, così come Roma. Ma anche Milano potrebbe avanzare le sue ragioni, visto che Manzoni ha cambiato la fisionomia dell’italiano, o Mantova, intrisa di memorie virgiliane e luogo del Festivaletteratura. A marzo abbiamo fatto un primo incontro con le massime istituzioni della lingua italiana e avuto segnali di interessamento da parte del ministero dei Beni culturali. Di certo, sogno un museo multimediale, immersivo, in cui si possano non solo vedere gli oggetti esposti, ma anche toccare le testimonianze attraverso strumenti digitali e ascoltare il suono della lingua. E poi un museo in fieri, aperto ad aggiornamenti continui. Non la sede di una celebrazione nostalgica, ma un luogo dinamico, come la lingua».