Libero, 6 settembre 2019
Bossetti scrive un libro per dire che è innocente
Massimo Bossetti sta scrivendo un memoriale (un libro in cerca di editore, in pratica) sin dal giorno in cui la Cassazione l’ha condannato all’ergastolo per l’omicidio di Yara Gambirasio nel bergamasco, a Brembate di Sopra. Ci lavora da Bollate, dov’è rinchiuso. Ed è normale, i condannati lo fanno spesso per dimostrare di essere innocenti a dispetto dell’esito processuale: ma nel suo caso – forse anche perché è scritto a quattro mani col suo avvocato, Claudio Salvagni – forse nel libro potremo leggere anche un esercizio di difesa che in parecchi, a parte i giudici e qualche colpevolista televisivo, hanno avuto l’impressione che non sia stato esercitato appieno. Oltre a materiale da ricorso, ci saranno le sue emozioni private e un appello affinché il materiale probatorio del suo processo sia ben custodito, questo in vista di una possibile revisione giudiziaria e come, per esempio, non è accaduto – scrive Bossetti – nel caso di Rosa e Olindo, ergastolani per la strage di Erba. Insomma: che a margine di uno degli omicidi più mediaticamente coperti che si ricordino – il caso Yara – debba ricorrersi a un libro per apprendere chiaramente la posizione di Bossetti, in definitiva, non corrisponde per niente a una battuta e pare semmai emblematico. Di che cosa? Anzitutto del fatto che in Italia l’espressione giuridica «in dubio pro reo» (nel dubbio, giudica in favore dell’imputato») si applica solo a processi lontani dai riflettori. È sempre più forte l’impressione che ci sia una relazione quasi matematica tra la celebrità di un caso giudiziario e lo sforzo profuso per risolverlo: nel caso di Yara Gambirasio, però, forse si è toccato l’acme. nei telefilm Giornali e televisioni ne fecero un caso talmente percussivo da spingere le Forze dell’ordine a un dispendio di mezzi che senza la pressione dell’opinione pubblica, forse, avremmo continuato a vedere solo nei telefilm: battute di cani, fiumi e invasi dragati, elicotteri, intercettazioni, rilevazioni satellitari, georadar, sensitivi, testimoni fatti tornare dal Centro America, 18mila campioni di Dna prelevati, e una spesa – pare – attorno ai tre milioni di euro. Prima ancora che valutazioni giuridiche, cioè, il caso Bossetti – o Yara – evidenzia una clamorosa disparità di trattamento rispetto ad altri casi, ma, soprattutto, ufficializza che le indagini e i processi di grande impatto mediatico hanno una celebrazione più rapida. D’un tratto sparisce la cronica lentezza della giustizia italiana: i casi Yara (o Cogne, o Boettcher) filano via come lippe e si concludono sempre con pene molto alte, come si dice: esemplari.Nel caso di Bossetti, l’ergastolo è stato confermato a margine di un processo che più indiziario non si può, ergo: senza delle prove propriamente dette. Ci fu l’arresto e il frettoloso proscioglimento di un primo sospettato, poi le strane circostanze del ritrovamento del corpo (l’ha trovato un tizio a caso, dopo mesi di affannose ricerche dei carabinieri) e ci fu una pressione popolare fuori dalle righe. Nel giorno del funerale di Yara, fu letto un messaggio del presidente della Repubblica mentre tuttologi come Roberto Saviano ritennero di dover suggerire piste camorristiche, ovviamente infondate. Poi, a tre anni dall’omicidio, eccoti spuntare Massimo Giuseppe Bossetti, un muratore di Mapello (incensurato) a cui gli inquirenti arrivarono per esclusione di tanti altri e per sovrapponibilità del suo Dna con quello rinvenuto sugli indumenti intimi di Yara: e qui si entra nel mondo complicatissimo delle perizie genetiche. Poi ci fu che alcune telecamere di sorveglianza avevano filmato il furgone di Bossetti nella strada in cui Yara frequentava una palestra, o così pare. Sulle prove genetiche non proviamo neppure a pronunciarci: basti che furono contestatissime e che la procura rifiutò di ripeterle, sicché il processo dovette attenersi solo agli accertamenti parziali dell’accusa. Anche la faccenda del furgone con cui Bossetti avrebbe adescato Yara: a molti parve un caricamento improbabile e immotivato dopo il quale, oltretutto, lui avrebbe guidato per una decina di chilometri senza che lei, intanto, riuscisse a ribellarsi o provasse a fuggire. Comunque Bossetti è stato condannato con l’aggravante della crudeltà e la revoca della potestà sui tre figli. La Cassazione ha parlato di «evidenza scientifica» e di «prova piena». Resta la libertà di pensare che qualsiasi tribunale anglosassone l’avrebbe assolto per mancanza di prove o, forse, più probabilmente, non sarebbe neppure arrivato a un processo. Perché poi i processi bisogna concluderli: presto e male, in questo caso. Intanto Bossetti scrive. Ne ha tutto il tempo.