il Fatto Quotidiano, 6 settembre 2019
Un inedito di Nabokov
In merito ai miei romanzi la mia posizione è diversa. Non riesco a immaginarmi intento a scrivere una lettera all’editore in risposta a una recensione sfavorevole, né tantomeno a dedicare quasi un giorno intero alla stesura di un articolo di spiegazioni, di rappresaglia e di protesta… Le mie invenzioni, la mia sfera privata, le mie isole speciali non possono essere intaccate da lettori esasperati…
Se invece le critiche ostili non si rivolgono a quegli atti di fantasia, ma a un’opera di riferimento concreta come la mia traduzione annotata di Eugenio Onegin (da ora in poi EO), allora entrano in gioco altre considerazioni. Contrariamente ai miei romanzi, EO possiede un risvolto etico, elementi morali e umani. Riflette l’onestà o la disonestà, l’abilità o la negligenza di chi l’ha compilato. Se mi viene dato del cattivo poeta, sorrido; ma se invece mi viene dato dello studioso mediocre, allungo il braccio verso il mio dizionario più grosso.
Non credo di avere ricevuto tutte le recensioni che sono uscite dopo la pubblicazione di EO, ma a giudicare dalle tante che sono giunte a me, si potrebbe concludere che la traduzione letterale è un meccanismo che ho inventato io di sana pianta, di cui non si era mai sentito parlare prima, e che c’era qualcosa di sinistro nel metodo e nell’impresa. Promotori e produttori di quello che Anthony Burgess chiama “traduzioni artisticheggianti” – e cioè versioni accuratamente rimate, piacevolmente modulate, che contengono, diciamo, un diciotto percento di senso più un trentadue di nonsenso e un cinquanta di riempitivi neutri – sono, penso, più prudenti di quanto credano. Pur essendo palesemente tentati da sogni impossibili, a livello subliminale sono mossi da una forma di autoconservazione…
Il mio EO non è ancora all’altezza del bigino ideale. Non è ancora né abbastanza simile a un manuale né abbastanza brutto. Nelle prossime edizioni prevedo di farne qualcosa di ancora meno standardizzato. Penso di trasformarlo in prosa utilitaristica da cima a fondo, in un inglese dallo stile ancor più accidentato, con barbose barricate di parentesi quadre e striscioni sbrindellati di parole reprobe, per eliminare le ultime vestigia di poesia borghese e di concessioni al ritmo. Ci sarà di che rallegrarsi. Per il momento, desidero solo e semplicemente esprimere il ribrezzo assoluto che suscita in me l’atteggiamento generale, amorale e filisteo verso la letteralità… Recensori da quattro soldi si scagliano in difesa dei pubblicisti sovietici ortodossi che “castigo” e di cui loro non avevano mai sentito parlare prima. Un russo più o meno esule a New York afferma che il mio commento non è altro che una collezione di sciocchezze oscure che oltretutto ricorda di avere già sentite molti anni prima a Gorkij dal suo professore…
L’articolo più lungo, più ambizioso, più capzioso e, ahimè, più sconsiderato è quello di Edmund Wilson in The New York Review of Books (15 luglio, 1965) e ho deciso di esaminarlo in dettaglio… Gli errori e le affermazioni inesatte contenute si susseguono in una serie ininterrotta così completa da sembrare artistica in senso inverso, al punto che c’è da chiedersi se per caso l’articolo non sia stato intessuto in quel modo di proposito per poter essere rigirato in qualcosa di pertinente e coerente nel suo riflesso allo specchio…
E per finire, il mio “istinto a scavare la fossa alle grandi reputazioni”. Ebbene, non c’è nulla da fare, Mr. Wilson deve accettare il mio istinto e aspettare la prossima vittima. Che diritto ha di impedirmi di considerare mediocri e sopravvalutate gente come Balzac, Dostoevskij, Sainte-Beuve, o Stendhal, il cocco di tutti quelli a cui piace che il loro francese scorra liscio? Quanto sono piaciuti a Wilson i romanzi di M.me de Staël? Ha mai studiato le assurdità di Balzac e i cliché di Stendhal? Ha mai esaminato lo scompiglio melodrammatico e il falso misticismo di Dostoevskij? Può davvero venerare l’arcivolgare Sainte-Beuve? E perché mi si dovrebbe impedire di considerare che l’orrido e insulso libretto di Cajkovskij non riesce a salvarsi neppure attraverso una musica che mi ha perseguitato con le sue stucchevoli banalità fin da quando ero un ragazzino riccioluto in un palco vellutato? Se mi è permesso esprimere la mia specialissima e molto soggettiva ammirazione per Puškin, Browning, Krylov, Chateaubriand, Griboedov, Senancour, Küchelbecker, Keats, Hodasevich, per citare solo alcuni di coloro che lodo nelle mie note, mi si dovrebbe concedere anche di sostenere e circoscrivere queste lodi segnalando al lettore i miei spauracchi e gli impostori accolti nell’olimpo della falsa celebrità.
(da Traduzioni Pericolose, Vladimir Nabokov, Mucchi editore)