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 2019  settembre 06 Venerdì calendario

Proposta: una scuola per formare i politici

Adesso l’Italia ha un nuovo governo. E l’augurio è sempre lo stesso: che sia meglio dei precedenti. Luigi Di Maio è il ministro degli Esteri, quindi gestirà la nostra politica con il resto del mondo. Per questo incarico sarebbero indispen-sabili due requisiti base: conoscere almeno l’inglese, e qualche nozione sui rapporti di forza. Scrisse che Pinochet dominava il Venezuela (era un dittatore cileno). Mandò una lettera a Le Monde scrivendo che la Francia, nata dalla rivoluzione del 1789, aveva una «tradizione democratica millenaria». A Shanghai, chiamò per due volte «Ping» il presidente cinese Xi Jinping. Liquidiamole come gaffe, ma certamente parte male. Ieri il commento dell’agenzia Xinhua, da Pechino (con cui aveva preso qualche impegno sulla Via della Seta), e lanciato da AdnKronos è stato questo: «scelta insolita, mai laureato, competenze linguistiche molto limitate, ha mostrato scarso interesse per le questioni globali nella sua vita pubblica». È tutto vero, ma nel pomeriggio il commento dalle pagine dell’agenzia governativa cinese era sparito.
Fra i nostri politici, la conoscenza delle lingue è scarsa («francese scolastico» dichiara per esempio il neoministro allo Sviluppo economico Stefano Patuanelli), come pure le esperienze e competenze professionali. Non sono obbligatorie. La maggioranza dei rappresentanti del popolo nasce nella politica e vi cresce dentro. Un dentista deve studiare almeno per sei anni e prendere una laurea, prima di poter limare un molare; un architetto non può alzare quattro muri senza avere laurea e abilitazione. Prima di assumere un ruolo di responsabilità devi dimostrare di aver prodotto qualche risultato. Per gestire pezzi di Paese, almeno in Italia, no. Di fatto i criteri di scelta e di arruolamento sono sempre gli stessi: cooptazione, fedeltà personale, convenienza reciproca. È una minaccia alla democrazia pretendere che siano richiesti requisiti di merito o di competenza prima di cedere le chiavi di un ministero, una Regione, un Comune?
Nel governo appena nato, uno dei posti più importanti è quello della prima donna ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti, Paola De Micheli, 44 anni. Il dicastero dovrebbe gestire investimenti già finanziati con 35,5 miliardi di euro per il 2018-2033. Tav compresa. Paola De Micheli ha preso la laurea in Scienze politiche nel 2001. Dal 1998 al 2003 ha presieduto una coop di agricoltori che trasformava i pomodori in conserve, in lotta con la concorrenza cinese, chiusa poi per liquidazione coatta amministrativa con 5.399.771 euro di perdite. La De Micheli aveva già lasciato la carica, il tribunale di Piacenza comminò un’ammenda di 2.000 euro. L’accusa, distribuzione sul mercato di merci mal conservate. In giudizio, lei sarà assolta. Per tre mesi, andrà a fare la consulente a Urumqi, in Cina, patria dei pomodori cinesi. E poi, verrà nominata commissario straordinario alla ricostruzione post-terremoto. Pochi risultati, ma la colpa è sempre delle norme capestro.
Roberto Speranza, dottorato in storia, mai lavorato nella sanità prima di entrare in politica, diventa ministro della Sanità; Teresa Bellanova, neo-ministro alle Politiche agricole, sindacalista, licenza media; Enzo Amendola, ministro per gli Affari europei, maturità scientifica, carriera tutta politica. Nella prima legislatura del dopoguerra (1949-1953) il 91% dei deputati italiani erano laureati. Oggi, sono poco più del 69%. Matteo Salvini è stato fuori corso per dodici anni a Milano, poi ha lasciato perdere.
Fabiana Dadone, 35 anni, laurea in Giurisprudenza, da curriculum «praticante avvocato abilitato al patrocinio», nessuna «funzione o attività imprenditoriale o professionale» dichiarata alla Camera il 17 maggio 2017. Le è stato affidato il mastodonte del ministero della Semplificazione. Prima di lei lo stesso ministero era toccato al dentista leghista Roberto Calderoli, e a Marianna Madia, laureata in Scienze politiche e a 34 anni ministro: «Porto in dote la mia inesperienza», disse. Se fossero nati in Francia, avrebbero dovuto frequentare la «Grande École» o Scuola Nazionale di Amministrazione: fondata nel 1945 da De Gaulle, 10.645 iscritti nel 2016. Cura la selezione dei quadri politici, economici e amministrativi, fornisce la maggior parte dei «grand commis», dei dirigenti dei partiti, e dei componenti dei governi; quattro presidenti, otto primi ministri e segretari di Stato, e anche Macron. Vi si accede mediante concorso, dai 18 anni in poi si è già inseriti nei meccanismi di selezione.
La Gran Bretagna ha scuole come l’Istituto del governo locale, che forma i gestori dei conti pubblici o della sanità. La Germania la scuola di Kehl, 70% donne che studiano pubblica amministrazione e all’iscrizione diventano già funzionari pagati. In Finlandia, i quadri si formano all’Istituto della pubblica amministrazione, che coinvolge tutti i ministeri. In Danimarca, i Centri per la valutazione delle competenze individuali formano il personale della pubblica amministrazione a tutti i livelli. Anche in Italia c’è la Scuola Nazionale dell’Amministrazione, fondata nel 1957, dipende dal Consiglio dei ministri. Fra gli ultimi corsi di studio : «Come redigere il piano di prevenzione della corruzione», «Ufficio stampa e media relations», «Esperto in protocollo e cerimoniale». La scuola vanta diversi scambi internazionali. Non tutti, forse, ad altissimo livello. Ultime delegazioni ricevute in visita ufficiale: Istituto cinese del Chengdu, Collegio nazionale del Pakistan, comune di Namyangju (Sud Corea), Istituto diplomatico della Georgia, accademia Ho Chi Minh del Vietnam. Ecco, si potrebbe cominciare a portare questa scuola all’altezza dei modelli europei sopra citati. E magari con l’obbligo di transitarvi, prima di amministrare la cosa pubblica.