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 2019  settembre 06 Venerdì calendario

La poesia alla sbarra. 1964, l’Urss contro Brodskij

Il 13 marzo 1964 Josif Brodskij viene condannato a 5 anni di lavori forzati nel remoto distretto di Konošada da un tribunale di Leningrado. L’accusa è «parassitismo», un reato che nel suo caso sarebbe consistito nello scrivere e tradurre poesie senza appartenere a associazioni ufficiali di scrittori e senza avere in parallelo un lavoro «serio». 
In realtà l’allora giovane poeta del circolo che gravitava intorno ad Anna Achmatova, ed era politicamente molto sospetto, aveva agli occhi del regime colpe ben più gravi: la prima era di esercitare una sorta di dissenso assoluto in termini culturali ed esistenziali, di essere insomma irriducibile al sistema, la seconda era di essere diventato popolare nella rete sotterranea del samizdat, ovvero la stampa clandestina diffusa con mezzi di fortuna, dal manoscritto al dattiloscritto al ciclostile. Un giornale di Leningrado lo aveva attaccato duramente, rimproverandogli ogni sorta di nefandezze. C’era la mano del Kgb, ma il processo doveva sembrare un atto di ordinaria amministrazione, come tanti altri.
Fu invece, forse proprio per la sua assurdità, una sorta di replica all’eterna condanna di Socrate. E per il regime sovietico un boomerang, perché le udienze vennero stenografate clandestinamente e i testi arrivarono anche in Occidente, creando un movimento d’opinione. Si trovano facilmente in rete, l’editore Medusa li ha pubblicati nel 2010 (Brodskij 1964, un processo) inseriti nella cornice di una drammatizzazione di Cristiano Casalini e Luana Salvarani. Il poeta, destinato di lì a due decenni (nel 1987) al premio Nobel, divenne rapidamente il simbolo di un’epoca e di un’oppressione.
Il suo credo era semplice ed eroico; nel discorso di accettazione a Stoccolma, lo avrebbe riassunto così: «Quanto più ricca è l’esperienza estetica di un individuo, quanto più sicuro è il suo gusto, tanto più netta sarà la sua scelta morale e tanto più libero - anche se non necessariamente più felice - sarà lui stesso».
Estetica ed etica sono inscindibili: ma per uno Stato totalitario si trattava (e si tratta) di un presupposto inaccettabile. L’intero iter giudiziario, pur senza farne menzione, riguarda proprio questo tema. Nel primo interrogatorio il giudice (è una donna sulla quarantina, nella trascrizione viene definita solo come signora Savalieva) chiede: «In generale, qual è la vostra specializzazione?». Brodskij risponde: «Sono poeta. Poeta-traduttore». Già sembra – o forse è intesa – come una provocazione. «Chi ha stabilito che voi eravate un poeta? Chi vi ha classificato tra i poeti?», ribatte infatti il magistrato. «Nessuno. E chi mi ha classificato nel genere umano?». Il giudice non reagisce. «E avete studiato a questo fine?», chiede. Brodskij: «A quale fine?». Giudice: «Per diventare poeta». «Penso che sia… un dono di Dio» è la risposta, forse beffarda.
Il dialogo è degno di un teatro dell’assurdo: «E cosa avete fatto di utile per la patria?». «Ho scritto poesie. Questo è il mio lavoro. Sono convinto... credo fermamente che ciò che ho scritto renderà un servizio non solo agli uomini d’oggi, ma alle generazioni a venire». L’aula è gremita di pubblico. Si sente una voce: «Eh, guarda un po’! Si dà delle grandi arie!». Cui qualcuno ribatte: «Un poeta, è normale che pensi così». Ma in base a una sorta di sillogismo totalitario, Brodskij che non guadagna a sufficienza né come intellettuale né come operaio non può essere considerato un poeta, posto che nel sistema sovietico «ciascuno riceve secondo il suo lavoro e, di conseguenza, è impossibile che abbia lavorato molto e ricevuto poco». Dunque è un parassita, e come tale viene condannato a 5 anni di lavori forzati. 
Le vere accuse sono in realtà altre, ma riguarderebbero semmai «reati» di diversa natura. Se ne incaricano alcuni testimoni, per esempio un pensionato dell’Unione scrittori che afferma: «Non conosco personalmente Brodskij. Quello che ci tengo a dire è che da tre anni sono al corrente dell’influenza disastrosa che egli esercita sui suoi contemporanei. Sono padre di famiglia… Più di una volta, ho trovato da mio figlio delle poesie di Brodskij… Ho sentito parlare di Brodskij a proposito del caso Umanski. Dimmi chi sono i tuoi amici... come dice il proverbio. Ho conosciuto personalmente Umanski. È un inveterato antisovietico».«Ascoltando Brodskij», prosegue il testimone, «ho riconosciuto mio figlio. Anche lui si considera un genio». Dunque, il poeta travia la gioventù? Alla domanda dell’avvocato difensore: «Perché pensate che sia Brodskij e non Umanski ad aver esercitato un’influenza nefasta su vostro figlio?», il testimone risponde dando improvvisamente voce al vero motivo del processo: «I versi di Brodskij sono ignobili e antisovietici». 
Alexander Umanski è un dissidente che qualche anno prima era stato accusato di voler dirottare un aereo per fuggire in Occidente. Il giovanissimo Brodskij, in quell’occasione, era stato convolto nelle indagini, subendo duri interrogatori da parte del Kgb e periodi di detenzione. Tornato libero, aveva fatto l’incontro più importante della sua vita, quello appunto con l’Achmatova. E in quel cupo ’64 segnato dalla caduta di Nikita Krusciov, il leader che aveva lanciato il cosiddetto disgelo e denunciato lo stalinismo, fu ancora lei, benché ormai malata – sarebbe morta due anni dopo - a lanciare instancabile una forte campagna d’opinione a favore del condannato, che ebbe grande risonanza in Russia e soprattutto in Occidente. 
Alla fine intervenne persino Jean-Paul Sarte, cui i sovietici, a quanto pare, tenevano moltissimo, e la pena fu ridotta al periodo scontato fino a quel momento. Così, a un anno e mezzo dalla condanna, il poeta venne liberato. Sarebbe rimasto a Leningrado ancora per sette anni, controllato strettamente e per almeno due volte rinchiuso in manicomio: ma intanto crebbero sempre di più l’attenzione e la stima in Europa e America, dove riusciva a far giungere i suoi scritti, tradotti a Londra, New York e in Italia.
Era una voce sempre più pericolosa, e il regime disse basta: nel ’72 il «parassita» fu costretto a emigrare e privato della cittadinanza sovietica, che gli sarà restituita solo con la perestrojka.
Cominciò il lungo periodo dell’esilio, quello che ne avrebbe fatto il grande interprete del mondo diviso. In Austria lo aspettava W. H. Auden, il poeta britannico che lui aveva eletto per maestro. Nell’87, ricevendo il Nobel, tenne la celebre lezione sulla letteratura, dove ricordò che «il punto non è tanto che la virtù non costituisce una garanzia per la creazione di un capolavoro: è che il male, e specialmente il male politico, è sempre un cattivo stilista». Il comunismo sovietico è finito, ma il messaggio resta. Valido anche oggi, benché tutto, almeno in apparenza, sembri cambiato.