La Stampa, 6 settembre 2019
La Cina si compra l’Iran
L’ultima missione di Jawad Zarif in Cina, alla fine di agosto, era molto più ambiziosa di quanto voleva far apparire. Il ministro degli Esteri iraniano è impegnato in un tour di force con i Paesi firmatari dell’accordo sul nucleare del 2015, Francia in testa, per trovare il modo di aggirare le sanzioni americane e convincere i Pasdaran a non lanciarsi di nuovo nella corsa all’atomica. Ma Zarif prepara anche il piano B. L’uscita dal Trattato e lo scontro totale con l’America. Il principale fronte sarà quello economico e per sopravvivere Teheran è pronta a gettarsi nelle braccia di Pechino.
La visita di Zarif
Durante la visita di Zarif Iran e Cina hanno definito la road map per la China-Iran comprehensive strategic partnership, firmata nel 2016. È un piano titanico, 280 miliardi di investimenti nel settore energetico nei primi cinque anni, più altri 120 nelle infrastrutture. La partnership sarà rinnovata ogni quinquennio, allo stesso ritmo di investimenti. I cinesi otterranno uno sconto del 12 per cento sul petrolio e gas che contribuiranno a produrre. Il piano prevede poi la costruzione di una ferrovia ad alta velocità Teheran-Isfahan e un gasdotto da Tabriz ad Ankara. In progetto c’è anche un corridoio di strade, ferrovie, gasdotti, da Kashgar, nella Cina occidentale, alla Turchia. Sono anelli fondamentali della nuova Via della Seta che collegherà l’estremo Oriente all’Europa.
La partnership dovrebbe garantire vantaggi a tutte e due le parti. Ma pare sbilanciata a favore di Pechino. Secondo il sito specializzato Petroleum Economist, i cinesi potranno dilazionare di due anni i pagamenti di petrolio e gas e usare, oltre al loro renmimbi, anche le valute deboli che hanno accumulato nei business in Africa, per un sconto totale attorno al 30 per cento rispetto ai prezzi di mercato. Il che significa anche che non verranno adoperati dollari e tutto il piano sarà fuori dalla portata delle sanzioni americane. La China National Petroleum Corporation ha già approfittato della stretta di Washington per aggiudicarsi un altro 50 per cento della Fase 11 del giacimento di gas South Pars, dopo il ritiro della francese Total.
L’export di greggio
Pechino va verso un monopolio delle partecipazioni straniere e fa man bassa dell’export di greggio. Ad agosto, documenta la General Administration of Customs, ha importato dall’Iran 925 mila barili, in barba alle sanzioni, con un aumento del 4,7 per cento rispetto a luglio. In più, secondo il sito Tanker Trackers, molte navi sfuggono alle statistiche perché spengono il transponder, il dispositivo che permette di seguire le loro rotte. Un altro meccanismo è quello delle triangolazioni. La Cina ha raddoppiato le importazioni dalla Malaysia, che non è un Paese produttore. Il sospetto è che si tratti di petrolio iraniano.
Una base logistica
I cinesi però vogliono anche trasformare l’Iran in una base logistica per le loro imprese. Costruiranno fabbriche e filiali per sfruttare il costo della manodopera più basso che in madrepatria. A sorvegliare i progetti ci saranno 5 mila militari cinesi. Teheran punta molto sulla carta cinese, anche troppo, e il rischio è di trasformarsi in «protettorato economico». Ma ha poca scelta. E in questo senso si possono interpretare le parole sibilline di Zarif: «L’unico modo per ridurre il terrorismo economico degli Stati Uniti è liberarsi dal cappio del boia». Cioè uscire dal sistema finanziario globale dominato da Washington. E l’unica ad avere i mezzi per una sfida del genere è la Cina.