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 2019  settembre 06 Venerdì calendario

Berrettini raccontato dal mental coach

Nella testa di Matteo Berrettini. Chi è l’uomo nuovo del tennis italiano, il 23enne che stanotte si gioca la finale degli US Open con Nadal? Oltre a Vincenzo Santopadre, coach e mentore da quando era bambino, c’è un’altra persona che può descriverlo, ed è Stefano Massari, 53 anni: è il suo mental coach.
E allora: chi è Berrettini?
«Una persona unica, con aspetti marcati e qualità molto grandi. Dotato di sensibilità estrema, una immensa curiosità e il desiderio di conoscere le cose, unite a determinazione e coraggio».
Come nasce il vostro rapporto?
«Attraverso Vincenzo Santopadre, Matteo era teenager. Il mio obiettivo è capire i valori delle persone e vedere come li calino nella realtà, lavorando sulle qualità come fosse un superpotere, togliendo i freni e gli ostacoli: quando Matteo gioca, porta in campo la sua vita. E non è terapia, perché non c’è nulla da curare».
Berrettini, cosi poco italiano.
«È il premio al lavoro di Santopadre. Il progetto di Vincenzo è profondamente umano, privilegia la crescita personale a quella sportiva. Berrettini è l’espressione altissima di questa filosofia».
Berrettini, gruppo-famiglia?
«È così. L’atmosfera di famiglia è l’elemento indispensabile per Matteo: lui ha necessità di avere un rapporto personale con lo staff con cui lavora, perché è così. Lui esterna affetto e ha bisogno di sentirsi apprezzato, dalle persone con cui lavora oltre che dagli altri ovviamente».
Che indicazioni le ha dato la partita con Monfils?
«Se lo ha battuto dopo quel doppio fallo sul 1° match point è perché non ha avuto una reazione aggressiva con se stesso. In quei minuti ho constatato quanto il nostro lavoro abbia funzionato. Gli ho detto che sono nato e morto tante volte nella stessa partita».
A parte il tennis, qual è la bravura di Matteo Berrettini?
«L’accettazione delle difficoltà. Matteo sa che vince chi accetta di sbagliare, è un grande interprete di questo. È bravissimo a imparare. La sua bravura è accettare le difficoltà.
Con il francese ha accettato di giocare con la mano che tremava.
Questa è la chiave. Monfils ha fatto l’attore, se Matteo si fosse innervosito sarebbe finita, invece non si è irrigidito».
Ora c’è Nadal, il che ci fa tornare a Wimbledon e a Federer.
«Oh, tornerà utile quella lezione. Matteo ha accettato il momento più difficile della sua carriera: contro il suo idolo e nel tempio del tennis. Poteva diventare un incubo ma ne è uscito con ironia, un segno importante».
Dove può arrivare Berrettini?
«E chi può dirlo? Posso dire che il suo percorso è talmente veloce che è pieno di crisi. Che non sono dubbi, ma difficoltà della crescita. Mi spiego: avendo una incredibile rapidità di apprendimento, la cosa lo costringe ad alzare il livello e confrontarsi a un livello superiore».
Poi ci sono gli amori.
«E mi sembra anche naturale: Matteo è uno che vuole molto bene, che ama e vuole essere amato. È fondamentale per lui che le persone che ama stiano bene, siano felici e che ci siano: da sua nonna alla sua fidanzata e fino a me, per dire. Ovvio che se ci fossero delle crisi nel contesto, ne risentirebbe. Ma è una ricchezza».
E i difetti?
«La tendenza al perfezionismo. Ma ora sa che una cosa è l’eccellenza, un’altra la perfezione. Da bambino si chiedeva di essere perfetto. Ma con Monfils ha giocato una partita eccellente, non perfetta. Ma la bellezza di Matteo è che si sente soddisfatto, ma non realizzato.
Anche nella vita, che vuole continuare a conoscere con lo stesso coraggio del suo tennis».