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 2019  settembre 06 Venerdì calendario

Infrastrutture, il post Toninelli

Non voleva mollare, il professor Marco Ponti. Non mollava nemmeno dopo che perfino il ministro delle Infrastrutture Danilo Toninelli sembrava rassegnato. «Fermare l’alta velocità Brescia-Padova sarebbe troppo costoso… », faceva mestamente osservare il 3 luglio scorso una nota del suo ministero. Ma Ponti, tecnico di riconosciuta competenza ma critico su molte grandi opere, a cui i grillini avevano affidato il totem dell’analisi costi-benefici, insisteva. E venti giorni dopo, davanti ai microfoni di Agorà estate , si faceva sentire eccome: «Fare la Brescia-Padova? L’analisi costi-benefici dice un no grande come una casa. Costi superiori ai benefici. Costa 8 miliardi».
Tanto era bastato perché il Pd chiedesse ancora una volta le dimissioni di Toninelli. Senza immaginare che il suddetto ministro sarebbe saltato, ma per ragioni del tutto indipendenti da quella richiesta. Né che appena quaranta giorni dopo su quella poltrona si sarebbe accomodata la vice segretaria dello stesso Partito democratico, Paola De Micheli. Così ora va in scena un altro spettacolo. Che prevede, per prima cosa, il pensionamento immediato della mitica analisi costi-benefici. Ossia quel calcolo con cui la commissione di sei membri presieduta da Ponti, e di cui facevano parte ben cinque esperti ostili alla ferrovia Torino- Lione, aveva bocciato la Tav. Innescando per paradosso l’incendio che avrebbe poi scatenato la crisi del governo grilloleghista e quindi la sua stessa fine.
Una fine scontata. Per il Pd ora alleato di governo del M5S l’analisi costi benefici imposta nel contratto con la Lega di Matteo Salvini per tutti i progetti infrastrutturali era una foglia di fico per mascherare decisioni già prese. Un misero espediente che serviva a giustificare il blocco totale delle opere giudicate inutili dai grillini. Senza però riuscire, a ben vedere, nemmeno nell’intento di fermarle del tutto. Ma a rallentarle, quello sì. Si è visto con l’asse Campogalliano- Sassuolo, a cui il Movimento 5 stelle non aveva dato tregua: l’analisi costi-benefici voluta da Toninelli avrebbe poi dato esito positivo, ma intanto si erano perduti altri mesi. Basterebbe poi ricordare la battaglia sulla Torino-Lione, cassata in teoria da un calcolo clamorosamente sconfessato dal presidente del Consiglio Giuseppe Conte. Il quale, dopo aver pubblicamente affermato che «costerebbe più fermarla che non farla», ha aggiunto che «soltanto il Parlamento potrebbe decidere di non farla». E in Parlamento sappiamo cosa è successo, con i grillini a sbattere contro un muro e il governo andare in pezzi.
Ma se il passaggio del ministero delle Infrastrutture dai 5 Stelle al Pd può essere considerato il segno che la resistenza parlamentare grillina su questo fronte appare fortemente ridimensionata (ci sono da sbloccare 62 miliardi di opere secondo i calcoli Ance), c’è da aspettarsi che la forza del contrasto si trasferisca sui territori. I gruppi locali del M5S del Basso Garda non hanno mai smesso di contestare la Brescia-Padova, neppure dopo che il ministero di Toninelli sembrava aver ceduto alle pressioni leghiste. Così come gli attivisti No-Tav non si sono mostrati affatto demoralizzati nel momento in cui Conte ha fatto cadere il veto. La ragione è semplice, ed è ideologica: il no alle grandi opere è uno dei presupposti fondanti del M5S. Al punto che il Movimento si è sempre tassativamente opposto all’eventualità di sottoporre la questione a un referendum. I tamburi grillini continuano a rullare. Se nei giorni dell’intesa giallo- rossa la consigliera regionale piemontese e valsusina Francesca Frediani ammonisce «Stop alla Tav o niente alleanze», il capogruppo grillino al Comune di Firenze Roberto De Blasi spara a zero sull’aeroporto e sulla stazione dell’alta velocità ferroviaria. Ed è niente rispetto a quello che si profila su altre opere simbolo dell’intransigenza grillina come la Gronda di Genova, il raccordo autostradale che consentirebbe di aggirare la città duramente contestato dai meet up locali, bloccato non soltanto con i risultati dell’analisi costi- benefici ma anche con la scusa di perfezionare l’iter di revoca della concessione alla società Autostrade. E giusto qualche settimana prima della crisi di governo.
Ecco il clima che si prepara per il ministero ritornato a trazione dem. Dove avranno ben presto a che fare con altre belle rogne. Nel programma sottoscritto dai soci di governo c’è pur sempre la revisione delle concessioni autostradali: e se questa spada di Damocle di per sé non potrà bloccare la costruzione di nuovi tratti autostradali, non è detto che non riesca a complicare la vita a certi investimenti già previsti dai concessionari. Soprattutto, nell’agenda c’è la nomina dei commissari previsti dal cosiddetto decreto "sbloccacantieri". Un’ottantina di esperti e funzionari ai quali il precedente governo avrebbe voluto affidare il compito di far ripartire altrettante opere impantanate nella burocrazia. Varato dal governo il 18 aprile, è stato convertito in legge il 14 giugno ed è entrato in vigore il 18 successivo, senza partire come un razzo nonostante l’estrema urgenza. In più, le nomine vanno ratificate dalle commissioni parlamentari, e i tempi si allungheranno. Con il rischio che tutto si trasformi in una gigantesca beffa. E forse chi ha deciso di imbarcarsi in quest’avventura avrebbe fatto bene a fare uno sforzo di memoria. Ricordando che un decreto "sbloccacantieri", proprio così l’avevano chiamato anche allora, era stato partorito dal ministro dei Lavori pubblici Paolo Costa nel lontano 1997: primo governo Prodi. Quasi identico a questo, prevedeva la nomina di commissari ad acta per sbloccare i cantieri che anche 22 anni fa, come oggi, erano paralizzati. Un anno dopo la Corte dei conti scoprì che era stato un clamoroso flop. Quasi tutti i cantieri erano bloccati: la burocrazia si era dimostrata invincibile. Paola De Micheli è avvertita.