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 2019  settembre 05 Giovedì calendario

Il ritorno dei democristiani

Più che la bocca, parlavano gli occhi soddisfatti del Presidente Mattarella, quando ieri pomeriggio, dopo la lettura della lista dei ministri del governo Conte-bis, è comparso davanti ai giornalisti: ufficialmente per ringraziare dell’attenzione riservata alla crisi, in realtà per esprimere compiacimento, con un’espressione del viso ben diversa da quella del 23 agosto, dopo il primo, deludente giro di consultazioni al Quirinale. Quello che nasce infatti è un governo che realizza pienamente, con quasi un anno e mezzo di ritardo, il disegno del Presidente della Repubblica, come lo aveva illustrato nel messaggio di Capodanno 2018, prima ancora delle imprevedibili elezioni del 4 marzo che segnarono il trionfo dei 5 stelle e la sconfitta più dura del Pd. In quel “discorso della pagina bianca”, come viene ricordato, Mattarella, invece di guardare con sgomento all’avanzata ormai prossima del populismo, si era rivolto a tutti, 5 stelle compresi, invitandoli ad assumere seriamente i compiti che li aspettavano. Una piena legittimazione del Movimento, schierato ancora sulla trincea di un’opposizione durissima. Seguita dall’obiettivo mancato della lunga crisi post-elettorale sfociata nell’esecutivo giallo-verde.
Democristianamente e dall’alto della sua lunga esperienza, Mattarella ha sempre creduto nel ruolo pedagogico delle istituzioni e nella responsabilità di chi entra a farne parte.
Non a caso, nel primo mezzo secolo di vita repubblicana, svoltosi tutto in pieno regime proporzionale e parlamentarismo puri, la Dc costruì progressivamente alleanze con tutti i partiti rappresentati alle Camere. Affrontando anche dure divisioni al suo interno, quando si trattò di stringere patti di governo, prima con i socialisti, e poi brevemente anche con i comunisti.
Ecco perché – sia detto con tutto il rispetto – questo è un governo democristiano. Non tanto e non solo per la fede politica di chi lo compone, ma per il metodo e il risultato finale. Democristiano, o neo-dc, è il premier Conte, formato in uno dei più raffinati think-tank del cattolicesimo impegnato in politica, la Villa Nazareth del rimpianto cardinale Silvestrini, dell’attuale segretario di Stato del Vaticano Parolin e di molti altri esponenti della cultura cattolica al servizio dello Stato. Del resto, da quando ha ritrovato la parola, Conte, sottomesso alla dittatura dei vicepremier nel precedente governo, non ha fatto mistero delle sue idee.
Democristiano, democristianissimo, è il (bis) ministro della Cultura e del turismo Franceschini, l’uomo-chiave, il vero costruttore, in silenzio, alla vecchia maniera felpata, dell’alleanza giallo-rossa, diversamente da Renzi (dc sui generis), che gli ha dato evidenza mediatica e ne ha sopportato il carico polemico. Di conseguenza, quando s’è trattato di scegliere tra Franceschini e Orlando, vicesegretario di radici post-comuniste, ovviamente non c’è stato match. Democristiani, o di provenienza post-dc, sono gran parte dei ministri Pd: Guerini (Difesa), De Micheli (Infrastrutture), Boccia (Regioni), Bonetti (Famiglia e pari opportunità), tal che la maggior porzione di potere assegnata al Pd è in mano a un monocolore. Nè vale la pena indicare le correnti di provenienza: il ceppo è quello. Gualtieri all’Economia è l’unico ministro di peso proveniente dall’ala post-comunista. Gli fanno compagnia, in ministeri senza portafoglio, Amendola alle Politiche comunitarie e Provenzano al Mezzogiorno.
Con qualche difficoltà in più, non foss’altro perché buona parte dei ministri pentastellati sono così giovani che nell’età dell’oro dello Scudocrociato, o erano lattanti, o andavano alle elementari, lo stesso aspetto riguarda il M5s. Pienamente democristiano è stato il commento di Luigi Di Maio, ministro degli Esteri, ai risultati del voto on-line della Piattaforma Rousseau, martedì sera: dall’orgogliosa rivendicazione della centralità politica del Movimento ai richiami a una terminologia da Prima Repubblica: “ago della bilancia”, “coalizione”, “programma”. Altro che “contratto” e “noi non ci alleeremo mai con nessuno” dei tempi andati. Democristiano, proveniente dalla Margherita, è il ministro Spadafora (Sport e giovani), che ha ospitato a casa sua il primo incontro faccia a faccia tra Di Maio e Zingaretti. Democristiano, amico personale di Mattarella, è il deputato 5 stelle siciliano Giorgio Trizzino, che ha lavorato nell’ombra, riferendo continuamente al Colle e sforzandosi di avvicinare, cucire, smussare e alla fine unire, come vuole l’alta scuola dc. E vagamente democristiano, allievo e amico del premier Conte, è il confermato ministro di giustizia Bonafede. Democristiani, infine, ognuno a modo suo, sono i padri nobili dell’accordo: Prodi e Grillo. Sì, proprio lui, il comico, garante del Movimento, che cominciò la sua carriera televisiva alla Rai scoperto da Pippo Baudo, il simbolo della tv democristiana delle origini, e ne uscì cacciato dai socialisti. Così, dopo un quarto di secolo, finalmente si può dire che la rivoluzione italiana è tornata al punto di partenza.