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 2019  settembre 05 Giovedì calendario

Maurizio Fava alla guida della facoltà di Psichiatria di Harvard

Dalle colline di Valdagno, la terra dei Marzotto, ai prati verdi del campus di Boston, tra scienziati e premi Nobel. Il professor Maurizio Fava il primo ottobre sarà nominato direttore del dipartimento di Psichiatria del Massachusetts General Hospital, che è l’ospedale dell’Università di medicina di Harvard. Considerato il dipartimento numero uno negli Stati Uniti dalle classifiche delle università. Un italiano, dunque, sarà lo scienziato più importante nella psichiatria americana. 
Fava, che oggi ha 63 anni, è sposato con un’italiana, ha un figlio di 21 anni, Giovanni, che sta per laurearsi in Ingegneria meccanica a Boston, e vive da 34 anni negli States. La sua storia è simile a quella di tanti giovani che fanno le valige per cercare possibilità all’estero. Il finale per ora parla di uno degli scienziati più citati nel mondo per gli studi e le scoperte nel campo della depressione, con decine di libri, 800 articoli originali pubblicati sulle riviste scientifiche, e oltre 70mila citazioni in letteratura – lo psichiatra italiano più citato nelle ricerche – con un lunghissimo curriculum di incarichi scientifici e riconoscimenti. 
«La nostra vita – racconta – è votata alla scienza. Sono sposato con un medico scienziato italiano, Stefania Lamon-Fava, che insegna Nutrizione all’Università Tufts di Boston». Un amore nato tra i banchi dell’Università a Padova. «Studiavamo Medicina. Poi ci siamo specializzati, lei in ematologia e io in endocrinologia. Nel 1985 subito dopo la laurea ci siamo sposati e abbiamo deciso di venire in America. Dovevamo restare 2-3 anni per poi tornare».
Ma le cose sono andate diversamente. «Arrivato qui ho trovato opportunità di ricerca che non avrei mai potuto avere in Italia». Più di trent’anni di ricerca sulla psichiatria. Al momento Fava è direttore del Clinical Trials Network and Institute, sempre ad Harvard, e coordina il lavoro di una trentina di persone, tra scienziati, programmatori, medici, project manager. «Abbiamo una quindicina di ricerche aperte in questo momento. Ho ricevuto finanziamenti per oltre 125 milioni di dollari in questi anni per portare avanti i miei studi». Nella sua lunga carriera di docente è stato mentore di una cinquantina di giovani. 
Quando gli chiedono come procede nel suo lavoro di scienziato, racconta della creatività italiana «che mi ha aiutato molto perché ho sempre cercato di innovare senza accontentarmi delle soluzioni facili». Cita un piccolo racconto di Franz Kafka, “Gli Alberi”: «Perché siamo come tronchi nella neve. Posano in apparenza, leggeri, tu pensi di poterli smuovere, con un lieve tocco. Invece no, non puoi, perché sono confitti al suolo. Ma, vedi, anche questa è soltanto apparenza». Il modo per arrivare a delle scoperte è essere aperti. Cercare di andare oltre le apparenze. «Nella scienza pensiamo di sapere poi ci convinciamo dell’opposto, ma magari non è neanche quello. Bisogna essere capaci di abbracciare nuove tesi». 
Le ricerche di Fava hanno portato a nuovi trattamenti farmacologici contro la depressione. «In questo campo si usavano farmaci simili uno all’altro e non c’era grandissima innovazione. Io ho sviluppato terapie nuove che ad esempio hanno effetti anti-infiammatori perché la depressione è spesso associata a una neuro-infiammazione del cervello. E dare farmaci più mirati per questo aspetto può essere molto importante».
Le sue ricerche hanno dimostrato che alcuni farmaci usati finora per altri motivi portano a un’azione antidepressiva perché agiscono su certi aspetti biochimici del cervello. Una delle ultime scoperte è quella sul farmaco denominato NS189 «che stimola la formazione di nuovi neuroni nell’ippocampo, stimola la neurogenesi e ha mostrato azioni anti depressive». Fava ha anche sviluppato un’innovazione metodologica denominata SPCD che permette di realizzare studi clinici con molti meno pazienti e permette di accelerare lo sviluppo delle nuove terapie. 
In Italia il professore ci torna ogni anno, d’estate. «Un mese in vacanza e per gli incontri scientifici. È sempre un bellissimo Paese». Ma Boston ormai è la sua casa e con lui dei tanti accademici italiani che lavorano. A Boston ci sono 7 università e 55 college. Ci sono più di 100 professori associati o ordinari italiani. 
«Harvard – racconta il professore – è piena di premi Nobel ma pochissimi sono quelli che si sono laureati qui. Li hanno presi da tutto il mondo e li hanno fatti venire. Fanno un po’ quello che il campionato di calcio italiano fa con i giocatori migliori del mondo. Purtroppo l’università italiana non lo fa più. Lo faceva nel Medio Evo quando venivano da tutta Europa per studiare o insegnare nelle nostre università. Oggi gli atenei italiani non riescono ad attirare neanche gli italiani, che spesso finiscono per andare all’estero per fare ricerca perché è molto difficile emergere e non c’è questa volontà di fare dell’Italia un faro dell’innovazione scientifica. Un peccato per il sistema Paese e per la perdita di talenti». 
Qualche anno fa l’Accademia della Via pubblicò un elenco dei 100 accademici italiani più citati nelle ricerche scientifiche. «Tra i cento citati venti erano a Boston. Organizzai una cena per metterli insieme e invitammo tutti i 100 docenti italiani che lavorano qui. Non fu facile trovare un ristorante abbastanza grande per ospitarli».