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 2019  settembre 05 Giovedì calendario

Sul nuovo romanzo di Howard Jacobson

WIMBLEDONX
Il formidabile Howard Jacobson è tornato (e già questo incipit, dopo aver letto uno dei suoi libri pieni di sarcasmo e sottigliezza, suona come il titolo di un manifesto del circo che sponsorizza il numero di un clown), con un romanzo dal titolo sardonico: Su con la vita (La Nave di Teseo). Lo scrittore di Manchester più corrosivo e divertente che esista ha messo al mondo una creatura chimerica: una storia d’amore in cui ogni pagina stilla avversione.
“Ero più uomo io di tutti gli uomini che ho avuto”, dice la vecchia bisbetica protagonista di questo lungo, nevrotico racconto, al termine di una vita popolata di uomini deludenti e mezze calzette, vita che sente scivolare via dalla sua memoria. “Ai limiti, si sta rendendo conto col passare del tempo, non c’è mai fine”. Questa frase è Howard Jacobson in purezza: ironia, disperazione, fragilità e un pessimismo totale verso il genere umano, la sola condizione capace di produrre piacevoli sorprese. Mai pittoresco, piuttosto feroce e puntiglioso come Dickens, Jacobson (Man Booker Prize per L’enigma di Finkler e altri svariati premi) non concede niente al lettore: è capzioso, amaro, spietato coi personaggi maschili ritratti nella loro fatuità insopportabile, devoto alle donne speciali e severo con le ordinarie, immune da tutti i tic del narratore di successo, tra cui il politically correct, la neo-religione degli scrittori di cui lui si infischia sovranamente. “Non sono arrivata alla mia età per spiegare l’uso dell’inglese di base a una sgualdrina moldava”, fa dire alla novantenne, un mix tra Bette Davis in Che fine ha fatto Baby Jane? e Karl Kraus.
L’autore è maestro di quel tipo di cinismo che per contrasto fa emergere l’anti-cinismo della salvezza, l’ironia che riequilibra tutti i rapporti, sgonfia le inutili enfasi, lenisce l’afflizione (ciò è esperibile anche grazie a un piccolo prodigio di traduzione: la traduttrice italiana Milena Zemirra Cicimarra conosce Jacobson al punto da interpretarlo nel pieno fulgore della nostra lingua).
La trama sono i personaggi, ha sempre sostenuto lo scrittore; tutti i suoi personaggi sono talmente intarsiati, come colpiti dalla grandine da ogni lato, che suscitano sentimenti contrastanti e profondi, come i protagonisti di miti contemporanei. Ci sono sempre madri soverchianti o aggressivamente remissive, figli potenzialmente incestuosi o insopportabilmente vitali, padri futili, amanti amati quanto meno meritevoli (“Aveva un debole per idioti e cadaveri”). Jacobson conosce tutte le pieghe della lingua perché conosce tutte le pieghe dell’eros. Non si pensi al porno soft né alla disperazione nel grottesco di Philip Roth: i dettagli fisici per Jacobson sono al più spiacevoli inconvenienti utili a guardare in profondità dentro le menti. Il sesso scandagliato da Jacobson è sempre cerebrale; è politica, storia, antropologia e persino farsa, come nel suo capolavoro Kalooki nights (ed. Cargo, in via di riedizione da La nave di Teseo) e in Un amore perfetto (“Non saprei spiegare per quale ragione sia così indispensabile, perché io mi innamori di una donna, che uno di noi due si senta in qualche modo offeso. Il mio impulso è di rigirare la domanda: come fa la gente a legarsi sentimentalmente a qualcuno laddove non esiste nessuna storia di disprezzo, nessuna traccia di ignominia a stimolare la passione?”).
La trama è tutta qui, e tutta analogica (non ci sono social network o telefonini; sui figli della signora, entrambi politici, uno di sinistra e un conservatore, Jacobson fa convergere tutto il suo disgusto), disegnata da personaggi che sembrano figurette ricamate su seta. La vita bizzarra (in fondo, non è mai troppo tardi per niente) farà incontrare l’anziana femme fatale con un coetaneo misantropo, “spaventato e oppresso”, inquinato da “veleni che non abbandoneranno mai il suo corpo”, che legge le carte agli avventori di un ristorante cinese. L’alchimia, dopo centinaia di pagine inzuppate di acido, è un elisir delizioso.
Col suo collettino svizzero psicologico, Jacobson racconta la paura di morire “scivolando come un’ostrica in una gola spalancata”, ineluttabile fine a cui si può opporre resistenza gloriosamente con due soli metodi: l’amore e la letteratura. In una intervista Jacobson disse di avere un senso tragicissimo dell’esistenza, e di ritenere questo francamente esilarante. Su con la vita, dunque: è orribile, ma l’alternativa è seccante.