la Repubblica, 5 settembre 2019
Lo spettro di Samara per le nostre città
Uno spettro si aggira per l’Italia. Il suo nome è Samara Morgan, la bambina indemoniata del film The Ring. Veste bianca, lunghi capelli neri che coprono il volto pallidissimo e un coltellaccio in mano. Spaventa chiunque le arrivi a tiro. A dare anima e corpo a questa creatura della notte sono centinaia di volontari dell’horror che in queste ore vengono avvistati in tutto il Paese. Il risultato è che la fatale ragazzina dalla pelle di luna è diventata a tutti gli effetti una replicante.
Che vaga indisturbata tra mondo virtuale e mondo reale. Perché le sue apparizioni finiscono regolarmente sui social. E dai social tracimano di nuovo sulla realtà, con la potenza di un’onda di ritorno dell’immaginario. Chi la incontra si spaventa. Qualcuno le dà la caccia. Tutti immancabilmente la filmano e la postano. E così la moltiplicano. E il copycat, cioè l’effetto emulazione è assicurato. Con conseguente crescita esponenziale. Che fa di quest’anima in pena un ultracorpo larvale. Come quegli esseri del fantasy che segmentandosi si riproducono all’infinito e fuori da ogni controllo. Perché di fatto a dargli vita siamo noi. Non sono loro ad autogenerarsi come tutto lascerebbe credere. Ma una sorta di corrispondenza segreta tra i nostri timori, le nostre inquietudini, le nostre paure e le forme che queste creature assumono. Nostre e non più nostre. Fantasmi incarnati nel corpo di qualcuno e continuamente disincarnati dal web. A conferma del fatto che non c’è rivoluzione tecnologica in grado di emanciparci dagli spettri che abitano le segrete della nostra mente e che ogni volta trovano in un personaggio della fiction un corpo in cui reincarnarsi. Una volta succedeva con le dame bianche della letteratura, poi con l’orrore cinematografico, dai vampiri agli zombies. Adesso è la Rete la nuova camera oscura dove si sviluppa per lampi intermittenti l’intero portfolio dei nostri incubi. Che cerchiamo di prendere in contropiede, andandogli incontro e mettendoci addirittura sulle loro tracce. In fondo il Samara Challenge è proprio questo. Un gioco collettivo con il terrore, nel tentativo di esorcizzarlo, di trasformarlo in fiction.
D’altronde la minaccia costituita dallo sguardo di Samara, che nel film incenerisce tutti entro sette giorni, come la Medusa del mito ma a rilascio lento, incarna in maniera un po’ pop e un po’ pip, la paura ancestrale di ciascuno. Quella di incontrare un grande nulla cui ci sforziamo ogni volta di attribuire dei lineamenti conosciuti, nel tentativo di poter dare un nome e un identikit a qualcosa che ci sfugge da ogni parte. Esattamente come la sagoma di Samara che sguscia tra Facebook e i cimiteri di paese, tra i sotterranei del metro e le strade di periferia dopo il tramonto. L’ora violetta in cui, come diceva il grande poeta Thomas S. Eliot, la nostra ombra si leva ad incontrarci. È in quella penombra dell’anima che Samara si infila senza trovare resistenza. Come l’ennesima regina della notte.