Corriere della Sera, 5 settembre 2019
Biografia di Eleonora Pimentel, la giacobina calunniata
La Napoli di fine Settecento era la più popolosa città di un’Italia che non era ancora Italia. Il censimento del 1742 aveva registrato poco più di 300 mila abitanti. Più 100 mila stranieri. Il 10 per cento dei locali erano i cosiddetti «lazzari» (dal vocabolo spagnolo laceria che sta ad un tempo per lebbra e miseria). Il conte di Tournay, Charles de Brosses, così li descrisse al ritorno da un viaggio nella capitale del regno borbonico: «La più nauseabonda gentaglia che sia mai strisciata sulla faccia della terra; banditi e fannulloni che passano la loro vita nelle strade e vivono della distribuzione dei conventi; tutte le mattine invadono le scale e l’intera piazza di Monte Oliveto e offrono uno spettacolo di tale laidezza da far vomitare». Goethe fu più comprensivo verso quei «vagabondi»: il «lazzarone», secondo lo scrittore tedesco, «tutto sommato non è per nulla più ozioso del suo simile di altre classi». Saranno, in ogni caso, quegli straccioni i protagonisti della controrivoluzione del 1799 che, incoraggiata dal sovrano, farà a brandelli il ceto della Repubblica. Repubblica che, sorretta dall’esercito francese, per qualche mese aveva dato a Napoli l’illusione di essere improvvisamente diventata un’avanguardia rivoluzionaria dell’Europa tutta. Un’esperienza destinata ad affascinare gli storici meridionali: dal pur critico e coevo Vincenzo Cuoco a Benedetto Croce.
La storia di quella rivoluzione è al centro di un libro, Eleonora Pimentel Fonseca di Antonella Orefice, in uscita da Salerno. Eleonora era nata a Roma, nel gennaio 1752, da una famiglia portoghese. Il padre, don Clemente Henriquez de Fonseca Pimentel Chaves, aveva deciso di trasferirsi nella città di Papa Benedetto XIV per sposare una sua conterranea, Caterina Lopez de Leon. La Roma di quel Papa, al secolo Prospero Lambertini, aveva eccellenti rapporti con il Portogallo in rapida modernizzazione sotto la guida del marchese di Pombal, acerrimo nemico della Compagnia di Gesù. Dopo la morte di Benedetto (1758) e l’elezione di un Pontefice filogesuita, Clemente XIII, il padre di Eleonora aveva deciso di trasferirsi a Napoli, che con il Portogallo manteneva ottimi rapporti. Napoli fu scelta perché – come aveva fatto Lisbona nel 1759 – si accingeva ad espellere i suoi seimila gesuiti (1767). Fu così che Eleonora divenne «napoletana». In quella fine del XVIII secolo allorché, puntualizza la Orefice, Napoli raggiunse «il massimo del suo splendore»: il regno di Carlo di Borbone aveva donato alla capitale del Mezzogiorno un’immagine prestigiosa. Per via di «riforme sociali e sfavillanti progetti edilizi» l’antica Partenope fu sempre più apprezzata in Europa e tale apprezzamento continuò a crescere anche dopo l’ascesa al trono di Ferdinando IV, almeno finché il regno fu governato da Bernardo Tanucci (1776). Ma nel momento della cacciata di Tanucci – in qualche modo pretesa dalla moglie del re, Maria Carolina d’Austria – le relazioni tra la città e la sua élite intellettuale iniziarono ad incrinarsi. Élite che aveva avuto il personaggio simbolo nel giurista Gaetano Filangieri, ammirato non solo da Benjamin Franklin, ma anche da Goethe (per la «nobiltà temperata dall’espressione di uno squisito senso morale», scrisse l’autore del Viaggio in Italia). Ed entrò a far parte di questa avanguardia intellettuale la giovane Eleonora, già famosa prima del 1799 come scrittrice di opere elegiache.
Eleonora fu già prima del ’99 una ribelle. La fonte principale di documenti sulla sua vita è nelle carte della crisi coniugale «scoperte» quarant’anni fa dall’avvocato Franco Schiattarella. La Pimentel ebbe un matrimonio infelice (1778), con Pasquale Tria de Solis, tenente dell’esercito borbonico quasi vent’anni più anziano di lei. L’unione fu turbata dalla morte (per vaiolo, poco dopo la nascita) di un figlio, Francesco, e dagli ostentati tradimenti del marito. Finché nel 1785, sette anni dopo le nozze, Eleonora decise di separarsi. Scelta che, sottolinea l’autrice, all’epoca fu considerata «un’ignominia». In particolare per una poetessa di corte. La quale però riuscì a ottenere da un giudice al passo con i tempi, Andrea Tontulo, il riconoscimento delle sue ragioni. Sicché da quel momento Eleonora poté dedicarsi ad una «nuova vita»: protetta dalla corte, che le aveva affidato un incarico di bibliotecaria, si occupò della comunità di San Leucio, poi della piccola Filadelfia, fondata in Calabria da un vescovo giansenista liberale di Potenza, Giovanni Andrea Serrao. All’indomani della Rivoluzione francese, Eleonora fu conquistata dai «giacobini napoletani», giovani colti e idealisti appartenenti a famiglie «benestanti se non ricche» che non condividevano la supponenza antifrancese di sovrani e aristocratici. Ma, precisa la Orefice, «è importante sottolineare che l’etichetta di “giacobini” fu loro attaccata in modo improprio senza tener conto delle reali caratteristiche di questi cospiratori che avevano ben poco in comune con gli adepti al club dai quali erano nati a Parigi il governo di Robespierre e il Terrore». Ormai però il gioco era fatto. La regina Maria Carolina (sorella della moglie di Luigi XVI decapitata in Francia con il marito) si mise alla testa di un’offensiva contro i «giacobini» napoletani e quando, dopo alcuni complotti che videro anche Eleonora in veste di «sospettata», fu scoperta nel 1794 una vera congiura, la repressione con partecipazione festante dei «lazzari», fu violentissima: recisione delle mani, lingue estirpate, teste tagliate, corpi dei supposti cospiratori bruciati in piazza.
Nel 1794 si concluse la fase più sanguinosa della Rivoluzione in Francia. Venne poi l’epoca del Direttorio, Napoleone iniziò la campagna d’Italia e Ferdinando IV – pur sospettoso – cercò di inserirsi nel gioco politico. Ma Maria Carolina tenne duro nella sua ispirazione violentemente antifrancese. Finché gli eventi precipitarono: a fine dicembre 1798 la corte fuggì a Palermo sul vascello Vanguard messo a disposizione dall’ammiraglio Nelson. E venne il tempo della Rivoluzione napoletana – «facilitata» dai 28 mila soldati del generale Championnet – che iniziò con l’assalto alle carceri e la liberazione dei detenuti. La fortezza di Gaeta si arrese ai francesi senza combattere. Gli uomini che il re aveva lasciato a sovrintendere la resa si diedero alla fuga e, scrive la Orefice, la plebe napoletana reagì con ira: «Con aria spavalda e minacciosa i peggiori criminali percorrevano strade e vicoli intenzionati a difendere valori religiosi, politici e morali» contro i francesi che si comportavano come un esercito di occupazione. Fu la situazione parossistica che si trovò ad affrontare Eleonora la quale, quarantasettenne, ottenne dal governo provvisorio la direzione del «Monitore Napoletano», giornale nato sul modello di quelli che avevano accompagnato l’intera campagna napoleonica.
A differenza però di altri fogli, quello della Pimentel fu critico anche nei confronti dei «liberatori» francesi. Nel senso che i «giacobini» partenopei furono percepiti più come collaborazionisti che rivoluzionari. Non però Eleonora. Il numero del 26 marzo del «Monitore» denunciò il generale Antonio Gabriele Venanzio Rey per le «manovre economiche estorsive» nei confronti della popolazione. Il numero precedente aveva rivelato una frode del generale Guillaume Duhesme. Rey cercò di censurare il giornale e di fare arrestare il tipografo, Gennaro Giaccio. La Pimentel tenne duro, smascherò le ruberie del generale francese e ne ottenne la rimozione. Un secolo e mezzo dopo (nel 1947) Benedetto Croce diede risalto a quell’articolo del «Monitore» che diceva molto dell’integrità morale della Pimentel. Il giornale ebbe vita breve. Come, del resto, la Rivoluzione napoletana. L’ultimo numero del «Monitore» fu il trentacinquesimo, pubblicato l’8 giugno 1799.
Le truppe del cardinale Fabrizio Ruffo che, su autorizzazione di re Ferdinando, da febbraio erano risalite dalla Sicilia reclutando un grandissimo numero di contadini e popolani – fu per dimensioni l’unica esperienza autenticamente popolare in quella fase della storia d’Italia – giunsero a Napoli. Al grido di «Viva Sant’Antonio» (in polemica con San Gennaro, accusato di aver «fatto il miracolo» al cospetto di Championnet, regalando popolarità al generale francese) e «Viva Santafede» entrarono in città. Fu il finimondo: i preti rimasti a Napoli o nei dintorni che non avevano preso parte alla spedizione di Ruffo, per dare testimonianza di adesione alla causa borbonica, «incitavano al massacro e benedicevano ogni scelleratezza». I seguaci della Rivoluzione, individuati spesso in modo approssimativo, venivano uccisi, fatti a pezzi: parti del loro corpo furono arrostite e mangiate; le teste decapitate erano prese a calci in un macabro gioco di strada.
Il cardinale Ruffo (che questo libro in qualche modo rivaluta rispetto alla demolizione che di lui ha fatto la storiografia risorgimentale) accettò il 19 giugno una resa molto vantaggiosa per i rivoluzionari ai quali (quasi tutti) sarebbe stato consentito di espatriare o riprendere la propria vita nel regno. Il trattato, secondo cui «i prigionieri di entrambi gli schieramenti» dovevano «essere subito rimessi in libertà», fu firmato anche dal rappresentante inglese. Ma Nelson, in nome del re Ferdinando, respinse i patti pur sottoscritti da un emissario britannico. Il cardinale Ruffo si ribellò all’ammiraglio che, dopo un’estenuante trattativa, accettò di fare imbarcare alcuni rivoluzionari, tra i quali avrebbe dovuto essere Eleonora. A quel punto però re Ferdinando pretese che uomini e donne che avevano avuto un ruolo da protagonisti nel ’99 napoletano fossero fatti prigionieri e in gran parte impiccati.
Si ebbero alcune sorprese: i lazzari – aizzati in parte da Lady Hamilton, amante di Nelson – si scagliarono contro i sanfedisti accusandoli di parteggiare per i repubblicani. Il cardinale Ruffo, che si era battuto per comportamenti leali a favore di coloro che si erano arresi, a questo punto si dimise da ogni incarico. Quando poi tornò a Napoli (per un mese soltanto, ospite della nave Foudroyant di Nelson ancorata in porto, prima di tornarsene a Palermo dove sarebbe rimasto due anni), Ferdinando IV, «per evitare che si creasse una frattura con i sostenitori del cardinale», respinse le dimissioni e lo nominò luogotenente generale del regno, carica corrispondente a quella di un viceré. Poi però diede inizio alle esecuzioni, a partire da quella dell’ammiraglio Francesco Caracciolo che lo aveva sì accompagnato a Palermo nel dicembre 1798, ma nel marzo successivo lo aveva «tradito» per unirsi ai rivoluzionari. E battersi, valorosamente, contro la flotta borbonica nei mari di Procida, Sorrento e Castellammare.
Dal re fu poi dato l’ordine di annullare qualsiasi provvedimento preso in virtù degli «infami principi democratici» nonché di «togliere dagli archivi e dai processi tutte le carte» che potessero in un futuro provare l’esistenza di quella «sedicente Repubblica». E soprattutto il massacro ad essa seguito. Tale provvedimento «mirava», sostiene l’autrice, «a distruggere la memoria storica di quegli eventi di cui nessuno avrebbe dovuto più proferire parola o cercare di emulare, pena la morte». La repressione durò cinque anni. Fu una delle più spietate operazioni di cancellazione della memoria.
Ne fu vittima anche la Pimentel, riacciuffata, processata, giustiziata e poi «riraccontata». Si diffuse la diceria che la direttrice del «Monitore napoletano» fosse stata condotta al patibolo priva di mutande, cosa che «avrebbe consentito, a maggiore soddisfazione della plebe, di poter osservare la fuoruscita dell’utero in seguito all’impiccagione». Secondo Enzo Striano – ne Il resto di niente (Mondadori) – qualcuno le avrebbe offerto in extremis una spilla per congiungere i lembi della veste. Ma la Orefice dimostra che si tratta di leggende, anche in quest’ultima versione più pietosa.
All’inizio del 1806 nuovo giro di boa: giunse a Napoli il generale napoleonico Massena, che mise di nuovo in fuga Ferdinando alla volta di Palermo. Su Napoli regnarono prima Giuseppe Bonaparte, poi Gioacchino Murat. Ferdinando tornò sul trono nel 1815 come re delle Due Sicilie. Ma stavolta si impegnò nella «politica dell’amalgama», cioè a tenere al loro posto sia i funzionari dell’apparato statale che gli ufficiali dell’esercito promossi dai francesi.
La damnatio memoriae sopravvisse solo nei confronti dei rivoluzionari del 1799. In particolare per Eleonora. Accusata, volta a volta, di esser stata «la borbonica, la poetessa, la traditrice, la femminista, la rivoluzionaria, l’esaltata, l’infanticida, la sublime e finanche l’ermafrodita», tutte definizioni «arbitrarie, forzate e spesso offensive», avallate purtroppo «dalle incolmabili lacune documentarie». Lacune che però Antonella Orefice è riuscita in grandissima parte a colmare. Restituendo alla Pimentel ciò che era doveroso restituirle.