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 2019  settembre 05 Giovedì calendario

Biografia di Roberto Gualtieri

Federico Fubini, Corriere della Sera

Roberto Gualtieri è in politica da sempre con il Pci e i suoi successori, ma è lontano dallo stereotipo del politico italiano. Non cerca frasi a effetto. Non improvvisa. Studia prima di parlare. Il risultato è che fino a oggi è stato l’esponente meno conosciuto d’Italia al suo livello d’importanza e lo ha scontato faticando a farsi rieleggere all’Europarlamento: fu ripescato perché Pietro Bartolo ha optato per un’altra circoscrizione.

A Bruxelles nel 2009 

La formazione di Gualtieri è da storico, autore di una ricostruzione della vicenda dell’Italia post bellica. La seconda formazione come conoscitore dell’economia italiana ed europea arriva con l’ingresso nel Parlamento di Bruxelles nel 2009. Fra gli eurodeputati, si fa apprezzare per la capacità di lavoro e una notevole persistenza nell’applicarsi a dossier pieni di trappole. Negozia il Fiscal compact, lavorando per permettere più margini e una condivisione dei rischi nell’area euro. Diventa presidente della commissione Economia e Finanza (Econ) di Strasburgo e contribuisce a evitare che l’Italia sia oggetto di procedure europee sui conti anche con il governo sovranista. Non crede nella finanza in deficit a tutti i costi, ma una sua priorità sarà il rilancio della domanda interna. A fine luglio lamentava: «Gli investimenti sono al collasso in Italia, bloccati, quindi l’economia è ferma».


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Marco Palombi, il Fatto Quotidiano

Quand’era uno degli ideologi, per così dire, della rivoluzione bersaniana del Pd indicò così la strada ai suoi compagni: “Dobbiamo superare la sindrome di Eltsin, la metamorfosi degli ex comunisti in tifosi del mercato”. La pratica e la praticaccia della politica – che “cammina sulle due gambe della mediazione e del conflitto”, ripete spesso il filosofo comunista Mario Tronti – negli anni ha insegnato a Roberto Gualtieri, storico di professione, cosa sono conflitto e mediazione quando il vento della storia – appunto – ti soffia addosso anziché spingerti: un po’ ci ha provato e molto ha rinunciato nei suoi anni a Bruxelles, vittorie invece pochine e sempre parziali.

Il nuovo ministro dell’Economia – romano, 53 anni, allievo di Beppe Vacca all’Istituto Gramsci, una moglie e un figlio – è il classico prodotto della filiera Pci-Pds-Ds-Pd, di cui ha attraversato le correnti della cosiddetta “sinistra interna” e le sue storie anche personali: dagli ex “giovani turchi” d’area dalemiana al bersanismo della fu “Ditta”, dall’appeasement col Matteo Renzi trionfante del 2014-16 al nuovo corso, pur già così fanée, di Nicola Zingaretti.

All’Europarlamento è al suo decimo anno e al suo terzo mandato ed è curioso che questo professore di Storia contemporanea (a La Sapienza di Roma) così poco conosciuto in Italia finisca regolarmente, e ai posti più alti, nella lista degli euro-eletti più influenti di Politico.eu: nell’ultima, per dire, era terzo. Non deve sorprendere, dunque, l’irrituale sostegno alla sua nomina della (quasi) governatrice Bce Christine Lagarde, arrivato quando Conte non era nemmeno salito al Colle: Gualtieri è uomo incistato nel potere europeo, nei suoi riti, nelle sue molteplici e ramificate reti di relazione.

Il politico che oggi ascende alla poltrona ministeriale, il primo al Tesoro da anni, in Europa debuttò già potente, come fosse sempre stato lì: al primo giro gli tocca, tra le altre cose, la presidenza della commissione Affari costituzionali e nel 2011 la nomina nel Comitato ristretto (con Brok, Verhofstadt e Cohn-Bendit) che ha negoziato a nome dell’Europarlamento il “Fiscal compact”. All’epoca forse non vinse “la sindrome Eltsin”, ma di sicuro quella “Tina” (There is no alternative, non c’è alternativa) e la realtà dei rapporti di forza intra-Ue: ancora oggi quelle regole di politica economica che tutti ritengono, allo stesso tempo, troppo rigide e troppo discrezionali sono ancora le (mai rispettate) tavole della legge europea.

Andò più o meno così anche sulla direttiva bancaria che istituì il bail in, cioè il sostanziale divieto di aiuti di Stato in caso di crisi, che ha fatto più danni della grandine in Italia. Leggendaria la ricostruzione dello stesso Gualtieri, qualche anno dopo, intervistato da Report: “Io la ritengo una direttiva fatta male”, spiegò il nostro. E perché l’ha votata? “Era l’indicazione di voto di tutti i partiti”. Ora, va detto, sono anni che – in ottima compagnia, da Bankitalia in giù – ne chiede la revisione.

Eppure “l’influenza” che Politico attribuisce a Gualtieri non è stata senza effetti in questi anni: magari non nel senso di una riforma “sociale e solidale” dell’Eurozona, che pure il neoministro chiede, ma ha se non altro guadagnato – non da solo ovviamente – all’Italia i decimali di “flessibilità” sui vincoli europei usati con larghezza da Matteo Renzi nei suoi anni a Palazzo Chigi.

Sono gli anni del suo secondo mandato a Bruxelles, quello del trionfo personale se non politico: Gualtieri strappa la presidenza della decisiva Commissione per i Problemi economici e viene nominato relatore di molti provvedimenti fondamentali (in particolare sulla regolazione dei mercati finanziari e, anche qui, con sconfitte pesanti e vittorie parziali).

Nel 2017 finisce pure nel comitato – ancora con Verhofstadt e Brok – che segue la Brexit per l’Europarlamento. Tutte benemerenze che dopo le Europee di quest’anno, nonostante un’elezione da ripescato, gli hanno consentito di essere confermato alla presidenza della Commissione.

Ora torna a Roma da ministro dell’Economia e uno dei suoi primi impegni sarà occuparsi del nuovo Fondo salva-Stati (Mes): quella riforma al momento è assai penalizzante per l’Italia e, va detto, le serie storiche di Gualtieri non lasciano ben sperare. Il suo premier, peraltro, ha pure annunciato di voler ridiscutere in sede Ue i vincoli di bilancio: che si debba farlo è opinione anche di Gualtieri, che alla fine si troverà però, con ogni probabilità, nel più congeniale ruolo di “ministro della flessibilità”. Ne ha assai bisogno se è vero quel che diceva qualche mese fa: “Per il 2020 tra clausole e riduzione del deficit si partirà da un buco di almeno 32 miliardi”.




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Stefano Cingolani, Il Foglio
Roma. No, non è un economista, ma uno storico. Non è un tecnico, ma un politico competente. Senza scomodare Max Weber, va detto subito che Roberto Gualtieri ministro dell’Economia, piace a Christine Lagarde, anche lei una politica competente. La prossima presidente della Banca centrale europea ieri gli ha reso “omaggio” pubblicamente durante la sua audizione alla commissione Affari economici del Parlamento europeo che proprio Gualtieri presiede, “per il lavoro svolto su mercato dei capitali. Anche se il lavoro non è finito”. Madame Lagarde conosce il galateo politico-istituzionale, quindi ha evitato di riferirsi direttamente al nuovo governo in formazione a Roma. 
I sovranisti salviniani dicono già che Gualtieri non è il ministro della Repubblica italiana, ma del superstato europeo (e ciò vale per l’intero Conte bis). Dicano pure, perché in questo momento è più che mai importante che a Bruxelles e a Francoforte l’Italia abbia amici, alleati e, se possibile, estimatori. Il neo ministro non è un uomo per tutte le stagioni, è stato scelto per questa stagione tempestosa durante la quale l’Italia deve smaltire la sbornia nazional-populista, sia pure con un governo bizzarro che ingloba anche i populisti, o almeno la parte non sovranista. Barocchismi italiani? Piuttosto contraddizioni della politica che non smette mai di stupire, basti guardare a quel che accade a Westminster.
Romano, 53 anni, con la passione per la chitarra, Gualtieri è professore associato di Storia contemporanea alla Sapienza, ha scritto libri e saggi sulla storia italiana e internazionale del secolo scorso, è vicedirettore dell’Istituto Gramsci. Proveniente dalla segreteria romana dei Democratici di sinistra nel 2006 è stato uno dei tre relatori che al convegno di Orvieto dove ha preso le mosse il Partito democratico. Eletto eurodeputato nel 2009, non ha fatto mancare la sua attiva partecipazione, anche a livelli di responsabilità, ai processi che negli ultimi dieci anni hanno accompagnato il travaglio e la crisi dell’Unione così come gli europeisti l’aveva sognata e l’avrebbero voluta. Lui non si è risparmiato, tanto che nel 2016 è stato giudicato uno degli otto parlamentari più influenti del Parlamento europeo.
Durante il suo primo mandato, Gualtieri, con Elmar Brok, Guy Verhofstadt e Daniel Cohn-Bendit, ha negoziato a nome del Parlamento europeo il Trattato sulla stabilità, sul coordinamento e sulla governance nell’Unione economica e monetaria, il cosiddetto Fiscal Compact. Un’esperienza cruciale, perché proprio questo è il compito più delicato che dovrà svolgere adesso in rappresentanza dell’Italia e dei suoi interessi.
Tutti si chiedono che cosa farà per evitare l’aumento dell’Iva o per realizzare la promessa di ridurre le imposte sul lavoro, alternativa giallorossa alla flat tax gialloverde (in realtà più verde che gialla come abbiamo visto). Riuscirà a realizzare, come dice l’accordo di programma, una politica espansiva mantenendo in equilibrio le finanze pubbliche (operazione davvero da funambulo dei conti)? Potrà far partire quegli investimenti che Giovanni Tria non è riuscito a sbloccare, nonostante le sue intenzioni? Tutte domande finora senza risposta. E ogni dubbio è più che legittimo. Ma la vera sfida per il prossimo governo italiano è giocare le proprie carte nella grande partita europea, la cui posta è la riforma della governance nella zona euro e nell’intera Unione.
Da quel che ha detto anche ieri Madame Lagarde (i paesi che hanno margini di espansione fiscale li usino), da quel che ha lasciato capire Ursula von der Leyen, dalle indiscrezioni sul dibattito che si è aperto attorno alla revisione, o aggiustamento che sia, del Fiscal Compact, sembra capire che la prossima legislatura europea entra in un’era di flessibilità, dove al primato delle regole si sostituisce quello della politica (e questo vale per la stessa banca centrale). Se significa che prevarrà il mercato delle vacche sarà un disastro, se invece vuol dire che l’Unione europea farà valere il giudizio sostanziale su quello meramente formale, cioè il giudizio che tiene conto delle condizioni concrete, degli equilibro sociali, delle specificità storiche, ebbene si apriranno spazi nuovi anche per l’iniziativa italiana. Bisogna sempre “fare i compiti a casa”, per dirla con una espressione in voga nell’èra del formalismo dogmatico, ma il tema oggi è la crescita, cioè come uscire da una stabilità fittizia che rischia di coincidere con la stagnazione secolare. Se l’Italia ha filo, ebbene che Gualtieri tessa come meglio può.

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Mario Ajello, Il Messaggero
È molto Zingaretti il nuovo ministro dell’Economia, il primo politico, e non tecnico, ad occupare quel posto dopo tanti anni. Roberto Gualtieri è molto Zingaretti, con cui si conosce dai tempi della comune e militanza nella Fgci, perché è stata una scelta del segretario dem quella di volere lui e proprio lui come super-ministro. Ed è un prof di provenienza Istituto Gramsci e cattedra di storia contemporanea alla Sapienza e un politico di professione che ha scoperto di esserlo come parlamentare europeo dal 2009 sempre molto stimato tra Strasburgo e Bruxelles dove presiede la commissione per i Problemi economici e monetari. E ora la Lagarde non fa che applaudire la sua nomina, mentre Ursula con uno così non potrà, o almeno si spera, dire troppi no all’Italia. Apprezza Keynes, sa suonare bene alla chitarra Bella Ciao. Ma guai a considerarlo un tipico sinistrese. Semmai, è un realista di scuola dalemiana, poi approdato a Renzi ma non è un renziano, e ora è un mediatore anche dentro il partito. 
53 anni, romano, ex membro del consiglio nazionale dei Ds e poi di quello del Pd, è passato dagli studi storici agli approcci macro-economici, nella prassi da parlamentare europeo. Dove è diventato (eletto nel 2009 e ora rieletto grazie all’ex sindaco di Lampedusa, Pietro Bartolo, che ha optato non per il Lazio ma per la circoscrizione Sud) un difensore non bacchettone della flessibilità contro l’ortodossia ottusa di certa tecno-burocrazia al potere. Europeista doc, ma il volto arcigno dell’Europa non gli appartiene. Sa che senza dare fiato alle politiche di crescita e di sviluppo, appiattendosi al rigorismo di tipo tedesco, i populisti guadagnano terreno. 
C’è una vicenda riassuntiva del personaggio e del suo modo di lavorare per l’Italia. La sigla è NPL. Si tratta dei crediti in sofferenza che erano nei portafogli delle banche italiane da molto tempo e la Bce aveva ad un certo punto costretto i nostri istituti di credito a svenderli in tempi rapidissimi e quindi a forte svantaggio del patrimonio. Gualtieri, alla guida dei Problemi economici, vista la grande protesta italiana spinge il Parlamento europeo a deliberare una normativa che riduce fortemente l’aggressività della Bce in questo settore. Una battaglia nella quale il neo-ministro s’è trovato in sintonia con Draghi (i due si stimano) e con la Banca d’Italia rispetto alla baldanza tedesca. A suo modo un patriota, insomma questo professore allevato alla scuola togliattiana di Beppe Vacca e che poi ha scoperto un altro mondo. Ora dovrà scoprire, oltre come si fa crescita, come si abbassano le tasse per gli italiani. Molte delle chance del governo giallo-rosè sono nelle sue mani. Conosce bene le regole e le procedure europee e questo aiuta. 
Il suo obiettivo è quello di riformare il patto di stabilità, cercando di scorporare gli investimenti per puntare maggiormente sulla crescita. E questo potrebbe essere il punto da cui far partire le trattative con la Ue per la prossima legge di bilancio. Ursula permettendo.