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 2019  settembre 04 Mercoledì calendario

Che cos’è la guerra (anticipazione dal libro di Domenico Quirico)

Il mondo è in disordine. Ogni giorno, aprendo i giornali, guardando la televisione, avviando Internet, abbiamo gli occhi spalancati sul Male. La guerra ci circonda, ci assedia, ci soffoca, l’uomo, la donna, il bambino del terzo millennio ne sentono perennemente l’odore e il suono: dall’altra parte del nostro mare e in fondo alle savane africane, sulle montagne di quella che un tempo era la Via della seta e il confine del regno effimero e favoloso di Alessandro Magno, la guerra annienta i segni lasciati dalle prime civiltà umane nella terra che sta tra il Tigri e l’Eufrate, si trasferisce nelle ricche città dell’Occidente assumendo la forma subdola ma sanguinosa del terrorismo.

Si uccide per tutto: etnia, religione, materie prime, controllo politico dei territori, riscatto di sconfitte che risalgono a secoli fa. Si uccide con tutto: droni e missili che costano milioni di dollari e machete comprati al mercato per pochi centesimi, impugnando un mitra che anche un bambino soldato alto poco più dell’arma può far funzionare o alla guida di aerei che richiedono sofisticate lauree in ingegneria.

Il vecchio dio Marte ha a disposizione gli altoparlanti dei nuovi media per richiamare al suo servizio eserciti di discepoli. Sembrava aver esaurito i suoi riti con il massacro nelle trincee della Prima guerra mondiale e con l’ecatombe della Seconda. E invece…

Le Nazioni Unite, create nel 1945 per scongiurare definitivamente la guerra, sono un fallimento: i conflitti o sono troppo piccoli e feroci per passare il setaccio della trattativa o troppo complessi per trasformare le risoluzioni, gli inviti, le parole, in tregua, accordo, pace.

La guerra per l’ennesima volta ha cambiato aspetto, ha scombinato le carte di chi credeva di averla imbrigliata in regole, limiti, confini. Le guerre di oggi, intorno a noi, non passano, non finiscono, ingoiano il dopoguerra, diventano eterne.

Non c’è una magnifica pace, la firma di un accordo, non ci sono i reduci, i sopravvissuti che tornano a casa, guardano le rovine, si rimboccano le maniche e cominciano, faticosamente, piangendo, a ricostruire. Il combattente, ma anche il civile travolto dal conflitto, non riesce a uscirne. Il dopoguerra è ancora la guerra. Perché non c’è una via di uscita, non c’è una soluzione: il conflitto rimbalza su se stesso. Il sopravvissuto diventa profugo eterno, che non ha più alcuna speranza di tornare a casa, si trasforma in migrante e trasferisce la sua disgrazia in luoghi lontani e tra genti estranee, che lo respingono come un possibile portatore dell’epidemia della violenza e della povertà.

Non chiudiamo gli occhi. Guardiamo. Nessuno di noi è immune, la peste è entrata nelle città, anche nella nostra. Chiudere la porta, sbarrare le finestre non ci salverà. Le frontiere del mondo «libero», quello che chiamavamo Occidente (esiguo, in fondo: Europa, Nord America e poco altro) si spostano dentro di noi. Le armonie economiche che erano diventate il nostro biglietto da visita e il nostro vanto (la globalizzazione del Mercato, una sorta di solidarietà mondiale dei consumatori che doveva garantire anche il modello democratico) vanno in frantumi. Coloro a cui gettavamo un’occhiata distratta per qualche settimana, dai ben vigilati confini di un resort o di un albergo di lusso, i poveri, il Terzo mondo, sono qui. Vivi. Sopravvissuti a viaggi tremendi che cerchiamo di ignorare per non dover rendere onore al loro coraggio. Possono raccontarci con i loro corpi e le loro piaghe le guerre da cui sono fuggiti. I loro nemici si chiamavano fanatici o politici corrotti che non volevano lasciar cadere neppure le briciole della ricchezza: petrolio, oro, legname, minerali pregiati, aiuti dell’assistenza internazionale.

Il combattente non può gettare via il fucile, sicuro che ormai sia arrivata la pace, che siano tornate le regole del diritto e della sicurezza. Nella guerra gli Stati si sono dissolti, spariti i poliziotti, i gendarmi i giudici e i tribunali. Al loro posto c’è il caos. Ognuno applica la sua legge, ha un dio diverso a cui obbedire o un capo i cui ordini deve rispettare. Soprattutto, senza un’arma in mano nessuno è certo di sopravvivere. E allora quell’arma se la tiene stretta, non crede a coloro che lo invitano a cambiare vita, a tornare a quella di prima. Come farebbe? Non c’è più, la vita di prima, l’hanno gettata via con i ruderi delle case distrutte, i campi devastati, i libri bruciati come inutili o pericolosi portatori di bugie, le chiese e le moschee incendiate perché dimore di dei falsi e bugiardi.

E poi è passato talmente tanto tempo da quando il massacro è iniziato che nessuno è ben sicuro di ricordare come l’intera tragedia abbia avuto inizio: l’ennesimo sopruso di un dittatore incontentabile? Un delitto nato dall’ira o da una vendetta privata, che ha scatenato una rabbia collettiva rimasta a lungo sepolta e che cercava solo un pretesto per affiorare? La miseria diventata così fonda da indurre anche i più miti a dire basta e ad accettare la morte pur di uscirne? Un predicatore che ha infiammato le folle, assicurando che Dio stava per tornare sulla Terra dopo un lungo silenzio e avrebbe creato il paradiso, qui, subito, ora? La vergogna di dover obbedire a padroni che vivono dall’altra parte del mondo nel lusso dei loro grattacieli?

Se chiedete ai siriani che vivono nella guerra da otto anni – e molti che all’inizio delle ostilità erano bambini oggi imbracciano già un fucile in qualcuno degli eserciti che si spartiscono il paese – qual è stata la causa del disastro, qual è stato il momento in cui un’insurrezione contro un dittatore è diventata conflitto feroce, vi daranno tutti risposte diverse. E i più onesti ammetteranno che ormai hanno perso il filo e la cronologia degli avvenimenti. Se si pensa alla Siria o alla Somalia o alla Nigeria, la guerra è un buco nero in cui tutto cade, da cui tutto esce, a cui tutto torna. La guerra è una prova integrale, sommerge la vita quotidiana, confonde il sacro e il profano. Non solo di coloro che vivono in quei luoghi ma anche di noi abitanti dell’Occidente, che fisicamente ne siamo lontani e crediamo di essere al riparo.