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 2019  settembre 04 Mercoledì calendario

Fuga dell’industria dalla Sicilia

Si chiamano aree industriali ma ormai l’industria sembra essere un’attività marginale. Si fa prima a chiamarle aree commerciali o basi logistiche. In Sicilia, a parte le solite eccezioni, va di scena quella che ormai in parecchi hanno definito la desertificazione industriale: imprese che chiudono, altre che resistono e vorrebbero investire ma aspettano tempi migliori, altre ancora che vivacchiano e non hanno alcuna voglia di rischiare.
Una situazione ben visibile nei numeri: tra il 2014 e il 2017 il valore aggiunto dell’industria in senso stretto in Sicilia è crollato di oltre l’8 per cento. E c’è chi, con amarezza, commenta: è stato raggiunto il punto più basso degli ultimi cinquant’anni. Numeri, elaborati dai rapporti di Bankitalia, che certo non dicono tutto ma raccontano abbastanza su una terra, la Sicilia, alle prese da anni con la crisi che ha portato a un graduale, lento ma costante abbandono di alcune aree industriali importanti dove sopravanzano centri commerciali e strutture per la logistica e poco o nulla si vede di iniziative manifatturiere. È vero, resistono i poli ormai storici come quello di Catania con la farmaceutica e l’elettronica avanzata oppure quello del triangolo industriale di Priolo-Augusta-Melilli nel siracusano. C’è una certa vitalità nel polo industriale di Ragusa. Ma poi poco o nulla. E anche dove sono presenti le grandi imprese prevale il senso di sfiducia e così tardano ad arrivare i nuovi investimenti. «Sono in corso di valutazione diversi investimenti nel polo industriale aretuseo – dice Diego Bivona, presidente di Confindustria Siracusa – : certo è che l’atteggiamento nei confronti dell’industria non aiuta in termini di fiducia. Ma al di là di questo è necessario creare le giuste condizioni per attrarre nuovi investimenti: tra queste giuste condizioni vi è sicuramente la Zes».
L’industria in senso stretto in Sicilia, secondo uno studio di Sicindustria rappresenta appena l’8% del Pil regionale (in Lombardia è il 22,7%) mentre la Pubblica amministrazione rappresenta il 30% (in Lombardia il 13%), i servizi il 53,5% (in Lombardia il 58,5%): «Pur tenendo conto che una parte dei Servizi riguarda attività di supporto per l’industria e l’agricoltura – si legge – siamo dentro una struttura economica regionale che mostra evidenti segni di debolezza dinamica. Ossia una economia che, così rimanendo le cose, è condannata alla crescente dipendenza dai trasferimenti esterni».
Il caso più eclatante, in questa fase, è Termini Imerese dove l’abbandono di Fiat prima e il fallimento di tutti i progetti di rilancio successivi fino a quello di Blutec hanno lasciato ferite profonde: «A parte qualche caso – racconta Alessandro Albanese, vicepresidente vicario di Sicindustria e lui stesso titolare di un’azienda che ha sede nell’area industriale – è rimasto poco. Possiamo ben dire, oggi, che la selezione delle imprese che dovevano venire qui a investire non è stata fatta con rigore, giusto per usare un eufemismo». Ancora peggio va a Brancaccio, altra area industriale ormai a pieno titolo nel perimetro urbano di Palermo dove, racconta ancora Albanese, sono rimaste due o tre imprese degne di nota: il resto è fatto di centri commerciali o altro che nulla a che fare con l’industria. Un censimento dell’Irsap, l’Istituto che in Sicilia ha in carico tutte le aree industriali della regione presieduto da GiovannI Perino, ha contato oltre 250 imprese insediate nelle tre aree industriali di Termini Imerese, Brancaccio e Carini ma, secondo stime, oltre il 70% è un’attività commerciale o logistica. L’Irsap, dal canto suo, sta facendo in tutta la regione lo sforzo di migliorare i servizi: ha già bandito gare per 24,6 milioni su oltre 61 milioni disponibili.
L’altro caso eclatante è quello di Gela dove, al netto degli investimenti di Eni che stanno andando avanti nonostante le difficoltà (resta in bilico l’investimento da 800 milioni su fronte gas e ierei si è svolta una riunione al Comune), si è arenato il piano per l’attrazione di nuovi investimenti e così le aree liberate e bonificate rischiano di rimanere vuote. Fin qui solo un paio di aziende si sono fatte avanti proponendo un investimento complessivo di 9 milioni. Ma è ancora tutto da vedere.