il Fatto Quotidiano, 4 settembre 2019
Afghanistan, tornano i Talebani e l’incubo del burqa
È un incubo che le loro mamme, o nonne, hanno già vissuto: nei dieci anni dell’occupazione russa, un (ristretto) numero di donne afghane sperimentò una certa emancipazione: andavano a scuola, lavoravano, facevano le insegnanti, il capo scoperto, gonna e camicetta castigate da giovani pioniere del comunismo. I russi partirono, arrivarono al potere i Talebani e cominciò una dozzina d’anni d’inferno, per le donne soprattutto.
Adesso, molte afghane sono terrorizzate dalla prospettiva che, su più larga scala, la cosa si ripeta: 18 anni di guerra e di presenza militare occidentale in Afghanistan hanno significato distruzioni e centinaia di migliaia di morti, ma anche, per le donne soprattutto, il riconoscimento di ruoli e diritti. Oltre tre milioni e mezzo di ragazze e bambine frequentano le scuole medie ed elementari, 100 mila giovani vanno all’Università, le donne occupano il 20% dei seggi del Parlamento: cifre che corredano un documentato reportage di USAToday.
Sono dati che l’accordo in via di perfezionamento con i Talebani per il ritiro dei militari americani e dei loro alleati dall’Afghanistan mettono a rischio. Il 2020, che segna un secolo dal riconoscimento del diritto di voto alle donne negli Usa, potrebbe invece comportare per le donne afghane un passo indietro brusco nell’esercizio dei loro diritti: potrebbero ritrovarsi costrette, come quando comandavano i Talebani, a portare il burqa, senza potere andare a scuola, avere un lavoro, accedere ai servizi sanitari, fare politica o anche solo parlare in pubblico. La Costituzione afghana del 2004 riconosce pari diritti a uomini e donne, condanna le discriminazioni e tutela l’accesso all’istruzione delle donne. Ma i Talebani, che non si sono fatti scrupolo di distruggere vestigia del passato inestimabili, non ci metterebbero molto a disfarsene.
L’accordo con gli insorti negoziato dall’Amministrazione Trump è controverso: non lo temono solo le donne afghane e quanti paventano un ritorno al potere dei Talebani. Quando l’intesa pare vicina, s’intensificano scaramucce e attentati, come se fazioni dei ribelli volessero farlo saltare. Chi vuole l’accordo pensa che due decenni dopo gli attacchi all’America dell’11 settembre 2001, condotti da al Qaeda, che aveva santuari in Afghanistan, non ci sia più motivo di restare nel Paese, nonostante la guerriglia non sia mai stata debellata. La pensa così il presidente Usa Donald Trump, che fa pure calcoli politici: avere ‘riportato a casa i ragazzi’ dall’Afghanistan sarebbe un merito da vantare nella campagna per le Presidenziali 2020, tanto più che l’aveva promesso nel 2016.
L’intesa di massima messa a punto comporta il ritiro di 5.400 soldati americani entro 135 giorni dalla firma – in pratica, entro fine anno – come prima fase del graduale ritiro di tutti i 14 mila militari americani presenti. Ovviamente, se ne andranno pure gli altri contingenti, fra cui l’italiano. L’inviato speciale degli Stati Uniti per l’Afghanistan, Zalmay Khalilzad avverte, però, che l’accordo “non sarà definitivo finché non sarà approvato dal presidente Trump”.
Ieri, il segretario generale della Nato Jens Stoltenberg e il segretario di Stato Usa Mike Pompeo hanno avallato all’unisono “gli sforzi per raggiungere la pace in Afghanistan” e hanno condannato “i recenti orribili attacchi terroristici” a Kabul e altrove nel Paese. Domenica scorsa quando già i negoziati, giunti al nono round, erano a un punto cruciale, l’esplosione d’un’autobomba ha scosso l’area di Kabul dove vivono e lavorano molti stranieri, la Green Zone: almeno cinque le vittime e una cinquantina i feriti. L’attentato è stato rivendicato dai Talebani, precisando che l’obiettivo erano gli stranieri che occupano il Paese. Sabato 24, invece, un attacco contro un matrimonio aveva fatto 63 vittime e decine di feriti: pure quell’azione era stata rivendicata dai Talebani. A Kabul, ieri, c’era Khalilzad, reduce dalla trattativa a Doha: il diplomatico ha incontrato due volte il presidente afghano Ashraf Ghani, uno che potrebbe avere qualcosa da ridire sul ritiro degli Usa. L’intesa prevede un calendario preciso, in cambio della garanzia, un po’ aleatoria, quando gli americani se ne saranno andati e le forze regolari afghane saranno incapaci di contrastare da sole i Talebani, che l’Afghanistan non sarà più utilizzato come base logistica e campo di addestramento da al Qaeda o da altri gruppi terroristici, come l’Isis.
Un auspicio che però contrasta coi rapporti dell’intelligence statunitense, secondo cui al Qaeda si sta riorganizzando e l’Isis, che non ha buone relazioni con i Talebani, s’è già insediato nel Paese, colpendo talora obiettivi sciiti. L’Isis starebbe recuperando forze e mezzi, anche se non controlla più il territorio, e disporrebbe ancora di 18 mila miliziani sparsi tra il Nordafrica, il Corno d’Africa, la Siria e l’Iraq e l’Afghanistan, e d’un bottino di guerra dell’ordine di 400 milioni di dollari.