La Stampa, 4 settembre 2019
Il boom di aggressioni ai medici
Di giorno, strutture affollate da personale e utenti. Di notte, diventano trappole. Niente telecamere di sorveglianza né vigilanti. Spesso decentrate in periferia o in campagna: chiunque può entrare liberamente. «Non so se per lavorare in queste condizioni ci vuole più coraggio o incoscienza». Ombretta Silecchia è un medico di famiglia, spesso di turno anche come guardia medica. Due anni fa, in provincia di Taranto, è stata minacciata da un uomo armato di pistola, dopo il rifiuto di prescrivergli un farmaco, per l’ennesima volta. «Sono stati 45 minuti di terrore, quando gli ho detto che lo avrei denunciato, mi ha riso in faccia». Adesso fa parte del gruppo di lavoro sulla sicurezza della Federazione nazionale degli Ordini dei Medici Chirurghi e Odontoiatri.
Una ogni tre giorni
Soltanto l’anno scorso, 1.200 casi di aggressioni in Italia ai danni di personale sanitario: 456 nel pronto soccorso, 400 in corsia e 320 negli ambulatori. Secondo l’Inail, una media di tre al giorno. «Molti non denunciano: vergogna, timore di ritorsioni ma anche perché si stanno abituando alla violenza». Secondo un recente sondaggio, il 65 per cento ha subito aggressioni. La percentuale - al Sud e nelle isole- aumenta fino a superare il 72 per cento, mentre - a livello nazionale- sfiora l’80 per i medici in servizio nelle emergenze. «Chiediamo la polizia nei pronto soccorso- dice il presidente della Federazione Filippo Anelli- dove c’è una maggiore utenza». E poi un sistema di vigilanza, sedi sicure -dismettendo quelle a rischio- e la procedibilità d’ufficio. In Parlamento, varie proposte ma tutte ferme. Inclusa quella di equiparare queste aggressioni a quelle di un pubblico ufficiale, prevedendo pene più severe.
«I cittadini hanno diritto alle cure e il medico ha il diritto di curare in sicurezza», dice Anelli che è anche il presidente dell’Ordine di Bari. Proprio la Puglia, insieme alla Campania, è una delle regioni più calde. Solo nell’ultima settimana di agosto, tre casi in provincia di Lecce, Bari e Foggia. Uno pretendeva la ricetta per un farmaco a base di oppiacei, un altro ha accusato i medici di avergli rubato il portafogli. «Il fenomeno è diffuso in tutta Italia, ma al meridione ha un’impennata. Soprattutto in quei luoghi dove il personale è carente e la gente aspetta anche dieci ore prima di essere visitata». Tra i casi più eclatanti, tre omicidi: uno in Sardegna dove, nel 2003, Roberta Zedda colpita con 19 coltellate, e due in Puglia. Nel 1999 Maria Monteduro, il cui corpo venne ritrovato nelle campagne, e nel 2013 Paola Labriola, uccisa esattamente sei anni fa. Era il 4 settembre. «Oggi la professione si declina al femminile, con il 70 per cento dei laureati». Eppure in molte sedi, come a Bari, non è previsto neanche l’identificativo di chiamata e il medico si reca da solo dal paziente, senza che un centralino possa localizzarlo.
A casa di sconosciuti
Non mancano casi di violenza sessuale, come a Trecastagni, nel catanese. «Andiamo a casa di sconosciuti- spiega Silecchia- e più volte abbiamo chiesto di essere accompagnati nelle visite a domicilio di notte. Ma le Asl ci dicono che non ci sono soldi. Allora ci arrangiamo: avvisiamo dei nostri spostamenti un fratello, un marito e le colleghe più giovani si fanno accompagnare dal papà, che aspetta. È assurdo». A Milano il medico del 118 è scortato da volontari. Ma la categoria chiede standard minimi di sicurezza. Intanto, il fenomeno è destinato a crescere.
A gennaio, a Palermo, vittima una dottoressa. A Napoli i parenti di una donna deceduta hanno assaltato il reparto. A luglio, a Bologna, rissa ai danni di un infermiere. Ad agosto, aggressioni anche a Genova, Roma, Taormina e Palermo. Nell’ospedale di Vizzolo Predabissi, nel milanese, nel 2018 si sono registrati 59 episodi e nei primi sei mesi del 2019 si è già a quota 25. Su Facebook è nato il gruppo di solidarietà «Medici della notte». Il simbolo è un gufo per gli uomini e una civetta per le donne, animali portafortuna: «Quello che ci vuole per rientrare incolumi a casa».