la Repubblica, 4 settembre 2019
Troppe torture, il pubblico lascia la sala
A metà Mostra di Venezia l’atmosfera si è fatta più rilassata: meno divi, meno titoli di richiamo, anche perché molti sono in partenza per i festival nordamericani di Toronto e Telluride. Tra gli spettatori, c’è chi recupera gioielli del passato tra i film restaurati, chi passa la lingua di mare fino al Lazzaretto per visitare la sezione della Virtual Reality ( sorprendente The Key, performance/ installazione interattiva, film di fantascienza che si scopre metafora politica). Rimane spazio per il cinema d’autore internazionale che costituisce la fascia intermedia dei festival, ma che quest’anno mostra anche una certa difficoltà. Già lunedì il film d’animazione cinese No. 7 Cherry Lane, ambientato nella Hong Kong del 1967 e costruito come incrocio di storie e di stili, ha sconcertato per una certa piattezza dell’animazione e per un gusto kitsch che affiora (ma c’è da dire che molti riferimenti storici e culturali sfuggono a noi spettatori occidentali). Ieri, due autori di prestigio ripetevano più o meno stancamente il loro cinema. Roy Andersson, vincitore del Leone d’oro nel 2014 con Un piccione seduto sul ramo riflette sull’esistenza, torna con un film a brevi episodi simile ai suoi lavori precedenti, fin cromaticamente nei colori spenti e ghiacciati. Stavolta però la struttura è ancora più rapsodica, con sketch da teatro dell’assurdo, a un certo punto compare anche Hitler, introdotti da “Ho visto un uomo che…” o “Ho visto una donna che…”. Sempre girato con inquadrature fisse in campo lungo, il film ha momenti divertenti, ma non raggiunge la compattezza di progetto, attraverso le varie storie, del film precedente.
Anche il film di Egoyan pare fatto con pezzi dei precedenti, nello stesso spirito di titoli come False verità o il lontano Exotica. Una donna in carcere, il padre ispettore sanitario (il personaggio più curioso del film), qualche oscuro evento nel passato: attraverso il consueto incastro di andirivieni temporali, i pezzi del mosaico tornano a posto, ma tutto è troppo meccanico e manovrato dall’altro. Soprattutto, quando nel film si crea un’atmosfera di tensione e mistero (qui piuttosto efficace), tutto il peso, simbolico prima ancora che narrativo, ricade sul finale. E poi stavolta, a differenza di altri titoli del regista, non si esce da una storia familiare asfittica.
Gran delusione invece per l’ambiziosissimo The painted bird, dal romanzo di Jerzy Kosinski (minimum fax), autore di Oltre il giardino. Un bambino ebreo subisce in silenzio un diluvio di sciagure e sevizie che sono un concentrato degli orrori del secolo: in campagna viene venduto a una strega, assiste a violenze domestiche e, cambiando di padrone in padrone, vede occhi cavati dalle orbite, zoofilia, morti cruente a volontà. Poi arrivano i nazisti e gli abusi sessuali, e infine i comunisti (che sono ancora peggio dei nazisti). Durante la proiezione sono usciti turbati in molti; ma in realtà lo stile leccato e vecchiotto rende difficile anche irritarsi, e inevitabile annoiarsi. Curiosità: il film è girato in lingua interslavica, una specie di esperanto slavo, cosicché l’ambientazione può farsi ancor più vaga e simbolica.