la Repubblica, 3 settembre 2019
Lettera a una professoressa
Cara professoressa (e caro professore), non cadono in questi giorni particolari anniversari dell’esperienza di Barbiana. Nessuna mostra all’orizzonte né libri in uscita. Chi se ne importa: più disinteressato suonerà questo mio scriverti, a pochi giorni dalla prima campanella, in un’epoca contraddittoria che scredita la scuola ma stende tappeti d’oro agli influencer, ai life- coach, e a dorate schiere di maître-à-penser in salsa digitale. Come dire: siccome ho tanta sete, evviva il bar e abbasso l’acquedotto. Temo sia il doloroso punto di partenza: in una società che elargisce dal basso (a suon di like) lo status di guida, non si è più disposti a riconoscere all’insegnante – come figura pubblica – il ruolo antico di formare. Per cui, cara professoressa, la tua debolezza di oggi sta in ciò che ti corazzava ieri: l’essere emanazione dello Stato, incarnare valori e riti di un sistema che ai tempi di don Milani era fin troppo coeso, mentre adesso è l’ombra esanime di sé.
Sembra incredibile, ma l’insegnante del 2019 ha più chance di essere seguito se riesce a far dimenticare che il 27 del mese è la collettività a pagarlo (poco, ahimè). È una delle conseguenze della crisi della delega: se si mette in dubbio la stessa democrazia rappresentativa, sostituendo il parlamento con il sondaggio online, è inevitabile che ci si chieda perché nelle strutture pubbliche non puoi sceglierti da solo l’insegnante o il medico. E invece no, invece è bellissimo che almeno in questo la società vinca sullo strapotere dell’individuo. Ma è una trincea, in cui voi insegnanti combattete ogni giorno, mentre scricchiolano – dovunque – i meccanismi fondanti che da singoli individui creano una comunità.
Un passo indietro: nel ’67, la prof a cui scrivevano i ragazzi di Barbiana era la faccia introflessa di un’Italia in grisaglia, classista, refrattaria al nuovo, la stessa che relegava la Pubblica Istruzione a indiscusso dicastero democristiano, e nell’insegnante leggeva una via di mezzo fra il celerino e il guardiano di museo, detentore di un’identità nostalgica e reazionaria. Oggi è tutto diverso. Tramontata la frattura fra i cosiddetti figli del popolo e dei padroni, ne è emersa fra i banchi un’altra fra vincenti e perdenti, ganzi e sfigati, con l’aggravante che il marchio di categoria è spesso irreversibile, nutrito com’è di presunte diversità genetiche (la razza, l’orientamento sessuale). Ne deriva che ora più che mai l’aula è un laboratorio sociale in cui creare l’anticorpo ai virus, ed è qui che ogni cattedra diviene un avamposto di civiltà, un presidio di igiene sociale che corregga sul nascere l’idiozia conclamata per cui vivere è iscriversi a un rodeo, dove i deboli vanno fuori pista. Che poi cosa sarebbe mai la debolezza? Servirebbe davvero insistere in classe su certe zone d’ombra delle patrie lettere: la bulimia alimentare del Leopardi, gli attacchi di panico del Manzoni, la sua balbuzie, tutti esempi di come l’anima di un “cagasotto” possa resistere nei secoli, mentre i gradassi dell’epoca sono polvere e vermi. È una forma di giustizia di cui esser grati alla letteratura. Così come dovremmo esserle grati per svelarci l’anticamera del presente, il suo background inconscio: per dirla con Umberto Eco, noi cerchiamo nei classici il perché siamo come siamo. E in effetti, cara professoressa, c’è un po’ di Dante e di Foscolo dentro ciascuno dei tuoi allievi. Ognuno di loro ha in sé, necessariamente, echi del passato. Si tratta di consapevolizzare questa riconoscenza, o se vogliamo questo debito di identità.
Ancora: nel ’67 la missione era offrire al proletariato l’uso consapevole delle parole, condizione basilare per l’inclusione democratica, laddove oggi si tratta semmai di istruire i giovani sui contesti dell’esprimersi, essendovi sui social fin troppo diritto di tribuna. Se Lorenzo Milani sognava una prof che dicesse «insegno a tutti a parlare, perché se parli ti salvi», io vorrei sentire invece «vi insegno quando e se parlare, perché spesso è meglio tacere». Chiamatela, se volete, ecologia espressiva. Dopodiché, crucialmente, si tratta di riplasmare il senso stesso del verbo imparare, messo in crisi da un dilagante consumismo cognitivo: a cosa serve immagazzinare conoscenze, se poi ognuno è connesso al web e all’istante ottiene risposte dai motori di ricerca? Peccato che il sapere non sia un bancomat o la preparazione a un quiz, bensì la creazione di un terreno fertile, la cui importanza vitale sta nell’appartenere interamente alla persona. Non si va a scuola per fornirsi di un know-how, bensì per strutturare una propria idea del mondo e di se stessi nel mondo, perché non esiste libertà più vera di quella che ti conferisce il senso critico.
Dunque la posta in palio non è più la fatidica maturità dell’allievo quanto la sua autonomia di essere pensante, connesso o no, dotato o no di smartphone, cioè realmente padrone di sé come scrive Nicholas Carr. Cos’è questo, se non un nuovo statuto umanistico? Cara professoressa, spetta a voi irradiarlo, ed è una missione a mio vedere entusiasmante. Quanto a noi, non c’è compito più importante che sostenere, da fuori, senza mezzi termini, senza esitazioni, la battaglia giornaliera di chi sale in cattedra, dalle elementari ai licei, dagli istituti professionali alle scuole serali, perché l’educazione è il baluardo oltre cui c’è il buio. Lo dirò, quindi, confidando di esser seguito da molti: non siete soli.
Buon lavoro, cara professoressa (e caro professore).