la Repubblica, 3 settembre 2019
Biografia di Moana Pozzi
Primavera del 1976. Una quindicenne bellissima con uno strano sorriso da Monna Lisa e lunghi capelli biondi aspetta l’autobus a Genova. Dovrebbe indossare la divisa delle orsoline, ma preferisce nasconderla piegata in borsa: quando esce di casa si cambia dove può e mette una minigonna. Si ferma un ragazzo su una vecchia Mini Cooper e le chiede se vuole un passaggio. Il ragazzo si chiama Antonio, ha ventitré anni ed è bello anche lui. Così la ragazzina decide che sì, vuole il passaggio, e vuole anche far l’amore con lui, quindi insieme vanno nella pineta di Mornese. Non che lui le piaccia particolarmente, ma la ragazza racconterà poi che «aveva un gran desiderio di provare cosa fosse il sesso nel modo più completo», che non si divertì affatto e che passò un anno prima che facesse l’amore di nuovo. La ragazzina bellissima e Antonio non si rivedranno più e a lui farà un certo effetto, qualche anno dopo, sapere di essere stato il primo uomo di Moana Pozzi.
L’infanzia di Moana si sviluppa in un contesto familiare felice, ma proprio nel senso inteso in Anna Karenina : la sua famiglia è di quelle che felici lo sono in modo noiosamente conforme. Purtroppo per loro, lei conforme non lo è per niente. Nasce a Genova in piena dolce vita, nel 1961, e per imponenza di forme ed esuberanza di lineamenti sembra uscita da un sogno felliniano. Il padre è un ingegnere nucleare, la madre fa la casalinga: si vogliono bene, sono bravi genitori, persone nella norma. Il loro colpo di testa più grande sembra limitarsi ai nomi che danno alle figlie: Moana e Tamiko. Neanche a farlo apposta, il nome di Moana contiene già un potenziale equivoco, tanto che anni dopo i più fantasiosi penseranno che si tratti di un nome d’arte, ipotizzando che possa provenire dall’inglese to moan, "gemere”. I coniugi Pozzi lo pescano invece dall’atlante geografico, scegliendo il nome di un’isola hawaiana che, tradotto dalla lingua polinesiana, significa “il posto dove il mare è più profondo”. Moana e Tamiko (il cui nome invece significa “fiore di nebbia") vengono cresciute come brave bambine. Sono sempre linde, ordinate, vestite con decoro e il rito domenicale “messa e pasticceria” è rispettatissimo. I libri in casa non mancano, ma devono prima passare il vaglio della censura paterna, e Moravia, uno per tutti, soccombe perché considerato osceno. La scelta dell’educazione è ben calibrata, ma l’accoppiata orsoline e conservatorio si rivela troppo costrittiva per il carattere esuberante ed esibizionista di Moana. Già a tredici anni, quando va in gita con la scuola, si porta dietro una Polaroid per farsi fotografare dai compagni di classe. Le piace sentire i loro occhi addosso, si toglie il reggiseno quando scattano e li guarda dritti in faccia, con quel sorriso compiaciuto e divertito che scioglie i desideri e rende molli le gambe dei compagni. I suoi non la fanno uscire la sera, terrorizzati da questa figlia che è una bomba a orologeria, così lei scappa dalla finestra, ruba i giornaletti porno al nonno, li studia con il fidanzato più grande e ne imita le pose, ma quella consapevolezza così precoce lo spaventa e lo inibisce.
La scatola di Genova è già troppo stretta e appena compie diciotto anni Moana fugge a Roma portandosi appresso l’educazione cattolica e il suo desiderio stretti in un abbraccio già pacificato. Racconterà: «Fino all’età di tredici anni non ho mai provato sentimenti nei confronti di Dio se non una grande paura dei suoi possibili castighi. Quando ho avuto le prime esperienze sessuali ho sentito che non c’era niente di male, non provavo sensi di colpa e non capivo perché Dio avrebbe dovuto proibire di fare l’amore. Se ti piace una cosa, può scendere anche Gesù Cristo a dirti che non va bene, ma se a te piace, basta, non c’è altro da dire. I Comandamenti che rispetto sono: non avrai altro Dio all’infuori di me, onora il padre e la madre, non uccidere, non rubare».
La Roma in cui arriva Moana, nel 1979, è molto diversa da quella di oggi: nonostante la liberazione sessuale abbia assestato qualche buon fendente, la pornografia e il desiderio carnale sono considerati ancora una malattia, un peccato o un reato, e in quanto tali devono essere curati, estirpati o al limite nascosti e praticati nella carboneria più assoluta. Il riferimento puritano è peraltro circoscritto al desiderio sessuale maschile, perché quello femminile in quegli anni non è nemmeno concepito. Fino al 13 maggio del 1978, quando viene approvata la legge Basaglia, bastava la testimonianza dei parenti perché le donne che esibivano un «comportamento inadeguato e abnorme in campo sessuale» potessero finire in manicomio. Il limite di ciò che era considerato abnorme era discrezionale e a volte bastava provare una pulsione men che pudica per essere accusate di «spiccate tendenze erotiche» da reprimere e punire. Nella cornice di questa morale cattolica fortissima e ipocrita, tutta a sfavore delle donne, per una come Moana i guai sono già un destino scritto. Lei infatti non solo ha le pulsioni, ma vuole farne un mestiere e non ha alcuna intenzione di praticarlo nell’ombra. In un mondo binario dove puoi essere solo santa o puttana, lei di diventare santa non ha mai avuto l’intenzione, anche se proveranno a proporne la beatificazione, dopo la morte. Così, appena arrivata a Roma, risponde a un’inserzione sul Messaggero, "Cercasi modella per pittore”, e inizia a posare nuda. Se la contendono artisti o vecchi guardoni che vogliono – appunto – solo guardarla per 10 mila lire l’ora.
L’educazione ricevuta, disciplinata e rigorosa, le fa declinare il desiderio in modo progettuale. Sin da subito si dà delle regole. Racconta: «Per me è proibito: non sperimentare tutto ciò che ci incuriosisce, avere troppa fiducia negli altri, non sapersi lasciare andare ai sentimenti e alle passioni, non tenere in forma il proprio corpo, maltrattare gli animali e le piante e lasciarsi prendere dalla tristezza per più di una volta alla settimana». Rispettando questi precetti inizia la trafila dei concorsi di bellezza, gravitando tra feste e notti lunghissime che si trasformano in albe al bar della Pace, in attesa di una botta di fortuna che per molte non arriverà mai. Per lei però sì.