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 2019  settembre 03 Martedì calendario

Intervista al fotoreporter Giorgio Lotti

È il decano dei fotoreporter che hanno fatto epoca, e non per modo di dire, perché Epoca, fondata nel 1950 da Alberto Mondadori, figlio di Arnoldo, sul modello di Life e con la consulenza del designer Bruno Munari, segnò davvero quasi mezzo secolo di storia italiana. Gli altri – Walter Bonatti, Sergio Del Grande, Walter Mori, Mario De Biasi – sono morti. Il milanese Giorgio Lotti, 82 anni, condivide il ruolo di superstite con Mauro Galligani, che alla chiusura del settimanale, nel 1997, fu rapito in Cecenia e restò prigioniero per 48 giorni. Da ragazzo si allenava al cinema Da Sesto: «Guardavo i film tre volte: una per la regia, una per la scenografia, una per l’interpretazione. Finché non vedevo in controluce mia madre che veniva a prendermi per un orecchio: “Disgraziato, torni a casa o no?”». 
Deve proprio a mamma Maria se è diventato quello che è. «Mio padre Lodovico se ne andò così giovane che manco mi ricordo più quale età avesse. Toccò a me mantenere la famiglia. “Giorgio, devi occuparti di fotografia”, insisteva mia madre. Alla cinquantesima volta, obbedii. Fu la mia fortuna. La prima Rolleiflex me la regalò lei». 
Lotti non ha mai smesso di fotografare. A Epoca ha avuto 16 direttori, fra i quali ricorda con nostalgia Nando Sampietro, che lo assunse nel 1964, Vittorio Buttafava e Sandro Mayer. Ma ha lavorato anche per Mario Pannunzio, Arrigo Benedetti, Nino Nutrizio e Pietro Radius, perché da apprendista vendeva immagini a Il Mondo, L’Europeo, La Notte, Settimo Giorno, Le Ore («non la rivista porno, eh»). Adesso il suo cruccio sono le 240.000 diapositive conservate nella casa di Varese: «A chi andranno?». 
Ricorda il suo primo scatto? 
«Un raduno di cani nei giardini di via Palestro, dove oggi c’è la statua di Indro Montanelli. Non dovetti fare molta strada: lavoravo per l’agenzia Giancolombo, che aveva sede nel vicino Palazzo dei Giornali di piazza Cavour. Alla seconda foto ero già in carriera: l’arresto di una madre che aveva ucciso il figlio». 
E l’ultimo? 
«Doloroso capitolo. “Devi andare a fotografare il presidente”, mi ordinò uno dei boss di Epoca. Ok, prenoto per Roma, risposi. E lui: “Ma no, che hai capito? Il presidente Silvio Berlusconi, non il capo dello Stato”. Lì compresi che finiva l’era dei direttori giornalisti e cominciava quella dei direttori politici». 
Che c’era di tanto scandaloso in un servizio posato sul Cavaliere? 
«I ritratti di regime non li avevo mai fatti. Appena giunto ad Arcore, cercai di sottrarmi all’incarico con una scusa: presidente, prima che lo sappia da altri, devo dirle che sono comunista. “Chissenefrega, caro Lotti, lei è bravo”, fu la replica. Lo seguii per quattro mesi. Le mie immagini finirono non so come su Paris Match e Stern. Cominciai a ricevere minacce di morte. Il matrimonio andò a rotoli e si guastò il rapporto con le mie due figlie. Non le vedo da 25 anni». 
Suvvia, per così poco? 
«Passare per ritrattista ufficiale di Berlusconi mi attirò un mare di odio. Mi credevano prezzolato. Venivo da esperienze totalmente diverse: Brigitte Bardot a Cortina, Sophia Loren nel suo letto, i Beatles, re Umberto nell’esilio di Cascais, il terremoto in Friuli nel 1976». 
Il disastro del Vajont nel 1963. 
«Otto chilometri a piedi fra le macerie. Brandelli di cadaveri ovunque. A ogni passo mi dicevo: no, Giorgio, non li puoi fotografare. Finché in quella desolazione apparve un prete con la stola viola sulle spalle, che impartì la benedizione alle salme infagottate in coperte di lana. Ecco lo scatto che rispettava la pietà». 
Paolo VI in Terrasanta nel 1964. 
«Il primo papa a viaggiare in aereo e fuori dall’Italia. Epoca mandò De Biasi, Del Grande e me per uscire con 64 pagine di foto. Ci crede se le dico che laggiù non c’incrociammo mai? Passai la notte sul pavimento nella basilica del Santo Sepolcro per essere certo di non mancare l’inquadratura giusta l’indomani». 
L’alluvione di Firenze nel 1966. 
«Il direttore aveva inviato De Biasi e Del Grande. Presi due giorni di ferie e andai per conto mio. Giunto al Ponte Vecchio, scoprii che i colleghi non erano riusciti ad arrivare. Le uniche immagini del primo giorno furono le mie». 
I funerali di padre Pio nel 1968. 
«Fotografai la salma. Ma alla redazione consegnai solo scatti dei fedeli in lacrime. Anche qui, una forma di rispetto». 
Giuseppe Ungaretti nel 1969. 
«L’avevo conosciuto nella villa di Arnoldo Mondadori, a Meina, sul lago Maggiore. La notte della missione Apollo 11 lo invitai in un albergo di Roma, dove avevo allestito una camera buia con tre televisori. Nell’attesa, a cena, mi declamò le sue poesie. E quando Neil Armstrong posò il piede, immortalai il suo impeto di gioia mentre con i pugni chiusi esclamava: “Giorgio, siamo sulla Luna!”». 
Zhou Enlai nel 1973. 
«Una volta ammesso nel Palazzo del Popolo di Pechino, scoprii che lo potevo ritrarre solo su fondo nero, con il profilo rivolto a sinistra: doveva guardare verso il futuro. D’improvviso un collaboratore gli chiese qualcosa e il primo ministro cinese si girò per una frazione di secondo in quella direzione. È diventata la foto più stampata al mondo, oltre 100 milioni di copie». 
Eugenio Montale in lacrime nel 1975. 
«Ero nel suo studio quando squillò il telefono. Mi allontanai per discrezione, continuando a scattare. Il poeta cambiò espressione. Si coprì gli occhi con le mani. Pensai a una brutta notizia. Invece gli avevano annunciato che aveva vinto il premio Nobel per la letteratura». 
Yasser Arafat con la pistola. 
«Ancor oggi ignoro in quale località lo fotografai. A Tunisi fui caricato su un elicottero e bendato. Il viaggio proseguì in auto, con due pistole puntate alle tempie. Arrivammo in una villa. Il leader dell’Olp mi chiese: “È vero che mi farà una foto come quella di Zhou Enlai?”. Lo ripresi mentre si fasciava la crapa pelata con la kefiah. Una guardia del corpo, che teneva due bombe a mano nel cinturone, si complimentò perché le mie figlie erano state promosse a scuola. Sulla famiglia Lotti i servizi segreti palestinesi ne sapevano più di me». 
Vittorio Gassman mentre si trucca da Otello al teatro Duse di Bologna. 
«Mi confessò che a 67 anni avrebbe voluto essere candidato al premio Strega. E si lamentò perché il Padreterno ci concede una sola vita anziché due». 
I Rolling Stones in concerto a Torino. 
«Trentasette gradi. Mick Jagger tirò una secchiata d’acqua sugli spettatori accaldati. Per quella foto mi donò una giacca con le note musicali ricamate. Me la rubarono in albergo mentre seguivo un congresso del Pci a Rimini». 
Ha mai sbagliato una foto? 
«Dalle diapositive del sisma in Irpinia spedite a Epoca dimenticai di togliere la scena di una vittima sepolta dai detriti. Misero in pagina proprio quella. Non me lo sono mai perdonato». 
L’art director fece il suo mestiere. 
«Oggi pur di vincere il premio Pulitzer si pubblicano scatti ignobili. Una sera ero a casa di un grande poeta italiano, di cui per delicatezza taccio il nome. Lavorava al lume di otto candele appoggiate su un vassoio d’argento e scriveva con la stilografica su una carta speciale. Arrivarono due miei colleghi. Illuminarono la stanza con fari come quelli di Cinecittà e gli ordinarono: “Professore, deve sdraiarsi sul suo scrittoio, come se fosse un letto”. Lui obbedì. Avevo le lacrime agli occhi». 
Il collega che ricorda con più affetto? 
«Walter Bonatti. Lo accompagnai in tutte le sue scalate, 40 chili in spalla: Grandes Jorasses, Eiger, Grand Capucin, Bianco. “Posa i piedi dove li metto io”, mi guidava. Era di un’onestà cristallina. Rifiutò di diventare testimonial. “Non voglio rendermi ridicolo”, diceva. Una volta fui spedito fra i cercatori d’oro dell’Alaska e lui mi diede l’indirizzo di un prete francese di Dawson City che mi portò da quelli con le pepite più grosse. I fotografi di Epoca erano fratelli, non rivali. Formavamo una famiglia». 
Lei è l’unico ad avere riunito per un ritratto Indro Montanelli, Enzo Biagi, Giorgio Bocca ed Eugenio Scalfari. 
«Un omaggio al grande giornalismo e a Biagi, che mi aprì le porte della rivista. Mi mandò da un radiologo di Alessandria malato di tumore per colpa dei raggi X. Viveva nella penombra. Per rispetto non usai il flash. Ho sempre pensato che una buona foto valga più di una bella foto». 
Altri tempi. 
«Allora con i direttori parlavi ogni giorno. I servizi da 16 pagine in parte me li finanziavo. Nel 1970 andai a Venezia per una settimana, a mie spese. Nacque così il reportage sulla morte della città lagunare, con il cartello “Pericolo caduta angeli” davanti alla basilica della Salute, che ispirò il titolo del libro di John Berendt. Non volevo essere bravo, ma sentirmi utile. Un piacere impagabile». 
Ha coltivato altri interessi nella vita? 
«Il teatro. Paolo Grassi nel 1974 mi consegnò una busta: “Aprila”. Era un permesso d’ingresso perenne alla Scala. Ho passato lì dentro 536 serate. Carla Fracci e Luciana Savignano mi facevano entrare in camerino, ho visto il loro seno. Sapevano di potersi fidare». 
Chi ha ucciso «Life» ed «Epoca»? 
«Life non so. Quella di Epoca fu un’eutanasia decisa in un vertice dalle parti di via Montenapoleone. Me lo confessò un presidente della Mondadori. Avevamo raggiunto una tale qualità che le altre testate, per inseguirci, dovevano spendere cifre folli. E infatti oggi i giornali rigurgitano di foto orribili pagate 5 euro».