il Giornale, 2 settembre 2019
C’erano una volta i bancari
Il posto in banca è stato per molti lustri l’antonomasia del lavoro sicuro, ben pagato, privilegiato. Un’assunzione era per la vita, anzi oltre, perché poi c’erano i figli pronti a essere reclutati dopo i padri. Alla Cariplo, scherzando, si diceva che neanche cercando di strangolare il capo del personale si sarebbe stati cacciati. Le mensilità di stipendio arrivarono a 16, e il welfare aziendale vegliava sulle famiglie degli impiegati ben prima che la sanità pubblica fosse a disposizione di tutti; poi c’erano i premi, gli aiuti economici, le borse di studio, i sussidi alle vacanze. C’era un senso di paternalistica protezione che non faceva male a nessuno, era un mondo in bianco e nero in cui si poteva fare carriera, si cresceva all’interno lungo percorsi prestabiliti, e chi progrediva fino al ruolo di direttore di filiale diventava, specie nei centri più piccoli, al tempo stesso un confessore e un’autorità.
È cambiato tutto. Il posto non è più così sicuro, non tutti entrano con il contratto a tempo indeterminato, i benefit non sono più paragonabili a quelli di un tempo, il lavoro è mutato e richiede (...)
(...) competenze diverse, la rivoluzione digitale è inarrestabile e non si sa ancora dove porterà. Le memorie più longeve ricordano ancora l’affollamento di scrivanie, a fine anno, negli sterminati saloni delle sedi centrali, dove milizie di ragionieri muniti di calcolatrice meccanica aggiornavano a mano gli interessi sui libretti. Un’umanità che richiama le telefoniste con gli spinotti o i casellanti in autostrada: spazzati via dal progresso, dall’automazione.
Nel 2000 i dipendenti delle banche operanti in Italia erano 344mila (fonte Banca d’Italia), oggi sono 273mila: si sono persi 71mila posti, la popolazione di una città come Imola. Diversi i numeri indicati dal sindacato: da 395mila unità in vent’anni si è scesi a 325mila. La sfasatura ha una sua ragione: la Banca d’Italia calcola solo il perimetro strettamente bancario, mentre il sindacato conta tutti coloro che hanno contratto bancario anche in società controllate che svolgono attività diverse, di supporto. Ma la riduzione non è finita: ci si aspetta qualche altro migliaio di tagli a breve, negli anni a venire.
IL VOLTO DELLE CITTÀ
La perdita di forza lavoro è andata in parallelo alla chiusura di sportelli, che tra sono passati dai 28mila del 2000 ai 33mila del 2010 – ultimo sussulto di un mondo già in cambiamento – ai 25mila di oggi. E scenderanno ancora. La chiusura degli sportelli ha inciso, e incide, anche sulla fisionomia delle città, perché delle filiali con le vetrine si sono appropriati negozi di arredi, di abiti confezionati, o invitanti paradisi del tramezzino.
«Oggi la banca – spiega Roberto Cascella, direttore del personale di Intesa Sanpaolo, primo gruppo in Italia – è un’impresa di servizi come tante altre. Noi offriamo servizi bancari come altri vendono servizi telefonici. Non abbiamo più le finalità degli istituti di diritto pubblico di un tempo, che dovevano aiutare il Paese a crescere: oggi siamo attenti alla crescita di imprese e famiglie, ma in un contesto privato e competitivo. Un tempo c’era il mestiere di bancario, il cui pane erano la cassa, i fidi, la gestione di bilancio: oggi la banca è un aggregato di mestieri differenti, che convivono in specializzazioni un tempo sconosciute, risk management, normative, risorse umane, finanza. Chi fa information technology, sicurezza o digitalizzazione non fa esattamente un lavoro bancario, e lo fa all’interno di una banca come potrebbe farlo all’interno di altri tipi di aziende».«È cambiata la società ed è cambiato anche il nostro lavoro – osserva Salvatore Poloni, presidente del comitato affari sindacali e del lavoro all’Abi, l’associazione bancaria italiana, e condirettore generale del Banco Bpm -. Sono mutate le relazioni interpersonali in generale, e con esse le professioni: anche fare l’avvocato o il giornalista non è come venti o trent’anni fa. L’innovazione ha modificato i comportamenti sociali e nel nostro settore è stata molto invasiva l’evoluzione normativa e regolamentare. Poi c’è stato lo sviluppo tecnologico e digitale, che ha cambiato il settore e la vita di ciascuno. I clienti ci chiedono servizi diversi o servizi prestati con altre modalità».
«L’avvento del digitale – aggiunge Roberto Cascella – ha stravolto il modo di relazionarsi con la clientela: certe funzioni allo sportello sono ormai pressoché scomparse, ormai un bonifico si fa da casa. Si sono persi dei mestieri ma si è creata un’ampia gamma di opportunità nuove, che prima non esistevano: si perde un cassiere e si acquistano dei tecnici. Un esempio? Parte del credito oggi viene erogato in maniera automatica: grazie a modelli matematici di valutazione è possibile stabilire il rischio in base ai dati disponibili. Prima le informazioni erano processate da persone che valutavano il merito creditizio. Oggi si stabilisce una certa soglia in automatico, e il sistema di valutazione definisce il merito del cliente sulla base della sua storia».
UN CLIC E VIA
In altre parole, si è perduto colui che cercava e lavorava i dati, ma si sono acquisite le competenze di chi progetta gli algoritmi, di chi carica i dati e di chi li elabora al computer. «La trasformazione – ammette il manager di Intesa – è guidata dal mondo che circonda le banche: chi acquista su internet con due clic non è più disponibile a operazioni che ne comportino tre».
Quello che appare incredibile è che i 70mila posti sono stati persi senza scontri sociali cruenti e senza alcun licenziamento. Una particolarità che ha una spiegazione datata 1999, quando le parti sociali hanno creato il Fondo esuberi, finanziato esclusivamente dalle banche e dai dipendenti, senza apporto dei contribuenti, che per 60 mesi garantisce il 70% dell’ultimo stipendio. I tagli sono stati trattati solo sotto forma di esodi volontari (pensionamenti maturati a parte), con uscite quindi non traumatiche. Tra il 2008 e il 2018 sono andati al Fondo circa 51mila dipendenti bancari e ciascuna banca finanzia i propri esuberi. La permanenza al Fondo dura in media 4 anni e il costo medio di un anno di sostegno è pari a circa 56.600 euro per lavoratore (dato Inps). Le banche poi versano al fondo altri 31,5 milioni all’anno per finanziare altre prestazioni, come formazione, riduzione dell’orario e interventi d’emergenza. Il fondo ha permesso anche di abbassare l’età media dei lavoratori, con conseguente alleggerimento del costo del lavoro.
E il futuro? «Il bancario resta centrale – assicura Poloni -. La tecnologia è lo strumento per interagire, analizzare i dati, capire le esigenze del mercato. Il vero interrogativo riguarda l’andamento dell’economia, al quale le banche sono legate. L’utilizzo delle tecnologie non è alternativo a quello sulle risorse umane: al contrario, l’investimento in tecnologie deve accompagnarsi all’investimento sulle persone che devono governare le tecnologie».
DIPENDENTI A METÀ
Intanto si sperimentano nuovi modelli. Il gruppo Intesa, in questo senso, ha introdotto modalità di lavoro inedite, anche se guardate con sospetto dal sindacato. Partendo dall’idea che tante operazioni bancarie oggi sono semplici commodity e che al bancario è richiesto un supporto per quei servizi che il cliente non riesce a fare da solo, è nata una figura mista, «metà lavoratore dipendente, metà consulente finanziario spiega Cascella -. Il contratto da dipendente vale per 2-3 giorni alla settimana, il resto è regolato come promotore, e questi si organizza tempi e luoghi, e lavora su un doppio portafoglio: quello che gli fornisce la banca e quello dei suoi clienti, sui quali guadagna secondo il risultato. È una formula partita da un anno, con la quale prevediamo di fare nel triennio mille assunzioni. C’è una fase di selezione, poi di formazione in accordo con l’università Federico II di Napoli. Ne abbiamo già assunti 150».