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 2019  settembre 02 Lunedì calendario

Ciclo: il mega business delle app per le donne

Le cose, lo zio dall’America o dall’Argentina, il barone o il marchese, quei giorni (rigorosamente rossi) o i giorni della rugiada. Addirittura le malefiche o i parenti in visita. Ce ne sono a iosa di nomignoli a loro dedicate, da sempre immerse in una sorta di pudore che le rende innominabili, da nascondere. E così nessuno le chiama con il loro nome: le mestruazioni. Stigma che le donne si portano addosso per gran parte della vita. Eppure, anche se il ciclo continua a essere considerato un argomento tabù, da un pezzo – complice la tecnologia – c’è chi ha capito che si tratta di un affare milionario. Ma poco c’entra la battaglia che si sta portando avanti nella maggior parte dei Paesi del mondo, Italia compresa, contro la tassazione sugli assorbenti equiparata a quella dei beni di lusso. Da noi, ad esempio, l’Iva applicata è al 22%.
Ora a fare gola sono i risvolti della cosiddetta female technology, vale a dire la tecnologia a servizio della salute femminile, il cui termine è stato coniato nel 2013 dall’ideatrice danese di “Clue”, una delle app più utilizzate per tracciare il ciclo mestruale. Usare un’app femtech significa monitorare quante volte si esce, si beve alcol, si fuma, si prendono medicine, si fa sesso, si ha il ciclo o si è in ovulazione e come è la qualità del sonno di una donna.
Quello, però, di cui forse si parla di meno è l’investimento che aziende collaterali, che a prima vista poco c’entrano con ormoni, gravidanze e salute in generale, stanno facendo di queste app. “Il rischio più concreto quando si parla di contraccezione digitale e femtech è quello della cosiddetta sorveglianza mestruale”, ha lanciato l’allarme pochi giorni fa il Guardian che in un’inchiesta ha ricostruito come dati biometrici, strettamente personali, raccolti da app e device anticoncezionali o sfruttati comunque per la cura della salute femminile siano finiti nelle mani di altri soggetti e vengano utilizzati per scopi diversi da quelli per cui sono raccolti. Insomma, la notizia è di quelle pesanti: in base alla fase del ciclo, le utenti – a loro insaputa – vengono invogliate a fare acquisti mirati: cosmetici o biancheria intima se stanno producendo estrogeni presenti in percentuale maggiore nella fase follicolare del ciclo mestruale o prodotti per la casa o per la maternità se stanno producendo progesterone presente soprattutto dopo la fase di ovulazione. Insomma, associare scienza e marketing ti fa ricco e ancora non perseguibile penalmente, visto che dell’utilizzo di questi dati se ne sa ancora molto poco e nessuno indaga. E intanto le aziende, denuncia il Guardian, continuano a utilizzare queste informazioni per proporre acquisti mirati sfruttando le variazioni ormonali.
Il comportamento e le abitudini femminili cambiano durante il mese principalmente in base agli ormoni che controllano le funzioni cellulari del corpo e sono in grado di influenzare la propensione allo shopping verso alcuni prodotti piuttosto che altri, senza rendersene conto. Così nessuna donna che usa queste app per monitorare il ciclo dovrebbe più sorprendersi se nei giorni di maggior fertilità troverà tra le pubblicità sui social network o lampeggiare nei banner che campeggiano sui siti Internet delle fotografie di completini per neonato o culle che, guarda caso, sono facilmente acquistabili sui portali di e-commerce più diffusi.
Insomma, quando si tratta di quattrini ogni tabù sparisce e i corpi delle donne si trasformano in strumenti più che mai particolarmente lucrativi. A fare i conti è la società di consulenza Frost & Sullivan, secondo cui quello delle femtech è un settore che entro il 2025 potrebbe valere fino a 50 miliardi di dollari. Basta pensare che in prodotti venduti tramite app vengono già spesi, ogni anno, svariati centinaia di milioni di dollari. Accanto a versioni gratuite che offrono un calendario della fertilità per aiutare a individuare i giorni dell’ovulazione per restare o meno incinta, ci sono infatti app che al costo medio di 19,99 dollari al mese promettono di prendersi cura della donna a 360 gradi: dalla dieta alle ore di sonno dormite, dall’abbinamento dei vestiti nel guardaroba ai regali da fare alle amiche.
Non sarebbe questo, del resto, il primo caso di dati elaborati e venduti a terzi per altri scopi. Lo scorso aprile un’indagine del Washington Post ha lanciato uno sconvolgente allarme sulla privacy mettendo sotto accusa l’app Ovia che negli Stati Uniti, con 11 milioni di utenti, è diventata un potente strumento di monitoraggio per i datori di lavoro che, sotto la bandiera del benessere aziendale, hanno iniziato a raccogliere più dati sulla vita delle lavoratrici. In poche parole, i dati dell’app sono stati trasferiti alle aziende per scoprire se quella dipendente è in grado di reggere a un maggiore stress lavorativo, se sta pensando di rimanere incinta, come la neo mamma pianifica di tornare al lavoro o se i figli sono cagionevoli di salute (con la conseguenza che la donna possa prendersi un maggior numero di ferie o di malattia).
E meno male che nessuno le chiama mestruazioni.