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 2019  settembre 02 Lunedì calendario

Sovranisti contro liberisti

Disse una volta Alan Greenspan a un suo interlocutore: «Se lei mi ha capito bene, evidentemente mi sono espresso male». Sulla base di questo criterio Jerome Powell, successore attuale di Greenspan alla guida della Federal Reserve, qualche giorno fa ha pronunciato parole disarmanti perché molto chiare. L’uomo che nel 2018 Donald Trump ha chiamato alla guida della banca centrale statunitense ha riconosciuto che anche lui in certi momenti si sente disarmato. Powell era al simposio annuale della Fed di Kansas City a Jackson Hole, Wyoming, e stava parlando in maniera appena velata delle guerre commerciali fra Stati Uniti e Cina. «Abbiamo molta esperienza nell’affrontare sviluppi macroeconomici tipici, ma collocare le incertezze di politica commerciale in questo quadro è una nuova sfida – ha detto il banchiere centrale -. Non esistono precedenti recenti che guidino le risposte (di politica monetaria, ndr) alla situazione attuale». 

Unilateralità
Essa si riassume con il fatto che minacce e ritorsioni negli scambi fra Washington e Pechino durano ormai da 425 giorni, con dazi americani annunciati o applicati su prodotti cinesi per 550 miliardi di dollari di scambi e dazi cinesi sugli Stati Uniti per 185 miliardi. Colossi tecnologici della Repubblica popolare come Huawei si scontrano con sempre maggiori vincoli negli affari con aziende statunitensi, mentre Google o Facebook sono tagliate fuori dalla Cina o quasi. Soprattutto, ciascuna di queste decisioni è stata presa dall’una o dall’altra parte in modo unilaterale: senza consultare altri governi coinvolti dalle ripercussioni; senza dare modo a qualche organismo internazionale, neanche all’Organizzazione mondiale del commercio (Wto), di mediare o tentare un arbitraggio fra le parti. Nell’economia internazionale siamo tornati a un mondo pre-Bretton Woods, pre-bellico. Sempre più pura politica di potenza. Chi ritiene di essere più forte cerca di vincere da solo, a danno di tutti gli altri. 
È questa la situazione che, secondo Powell, non ha «precedenti recenti». Il multilateralismo, l’apertura dei mercati e la condotta delle maggiori economie del pianeta sulla base di regole internazionali condivise: tutto questo sta venendo meno con l’avvento di una generazione di sovranisti-populisti proiettati al governo dai postumi della crisi finanziaria. Il corollario, negli assetti interni dei loro Paesi, è il declino delle autorità indipendenti e della separazione fra i poteri. Non c’è solo Trump che definisce Powell un «nemico» perché la Fed non taglierebbe i tassi abbastanza in fretta, in modo da attutire l’impatto delle guerre commerciali. Il sovranismo nel distruggere gli accordi commerciali con l’estero ha ripercussioni interne anche altrove. A Londra il neo-premier Boris Johnson minaccia un divorzio dall’Unione europea senza accordi, contro il parere della Camera dei Comuni. Ma proprio per impedire al parlamento di imporre al governo la preferenza degli elettori contro una «hard Brexit», Johnson sta cercando di tenerlo chiuso fin quando la rottura con Bruxelles non sarà un fatto compiuto. 
La domanda non è se questo sia realmente il mondo di oggi, perché lo è. Quel che resta da capire è se l’unilateralismo e il costante tentativo di prevaricazione degli esecutivi «sovranisti» sia destinato a essere anche il tratto dominante nel futuro prevedibile. Dopo Trump, può tornare nell’economia globale il multilateralismo fondato sul diritto? È il punto vitale da chiarire per l’Italia giunta a una svolta politica e per l’Unione europea all’inizio di un nuovo mandato della Commissione e dell’europarlamento: ne discende l’atteggiamento che i governi di Roma e di Bruxelles potranno tenere nei prossimi anni. 
Per ora non esiste una risposta. Esistono solo indizi che emergono dai rapporti di forza impliciti nel consesso tipico di questa globalizzazione 2.0 con così poche regole formali: il Gruppo dei Venti o G20 – in realtà 19 Paesi, più l’Unione europea – creato dopo la crisi finanziaria per coinvolgere i Paesi emergenti nelle consultazioni. A questi vertici – l’ultimo a Osaka a giugno, il prossimo a Riad nel novembre 2020 – si possono distinguere due gruppi di partecipanti: otto governi «sovranisti» e dieci governi «multilateralisti» (vedi grafico in pagina).

Politiche di potenzaI primi tendono a non credere molto nel coordinamento multilaterale o almeno a volte praticano l’unilateralismo, privilegiando all’estero la politica di potenza e in patria la concentrazione del potere nelle mani dell’esecutivo. Fra questi figurano anche democrazie di fatto o solo di nome come Brasile, India, Turchia, Gran Bretagna e Stati Uniti (oltre a Cina, Russia e Arabia Saudita). Dall’altra parte restano i multilateralisti che, in casa propria, praticano più o meno bene la separazione fra i poteri: i Paesi della Ue, Italia inclusa, più Sudafrica, Corea del Sud, Giappone e anche una democrazia profondamente difettosa come l’Indonesia. Resta in mezzo fra i due gruppi il Messico, dove il nuovo presidente di sinistra Andrés Manuel López Obrador è multilateralista in proiezione internazionale ma in patria sta mettendo sotto pressione i poteri indipendenti. 
Chi è più forte fra i due gruppi nel G20, ed è dunque in grado di imprimere la direzione di marcia nei prossimi anni? Sul piano demografico, prevale nettamente il gruppo dei «sovranisti»: rappresentano 3,6 miliardi di abitanti della Terra contro meno di miliardo dei multilateralisti (e questi ultimi in media sono molto più anziani). Anche per il peso economico prevalgono i «sovranisti», perché nell’insieme esprimono il 67% del prodotto lordo (Pil) totale dei Paesi del G20 e quasi due terzi dell’economia del pianeta. I Paesi che sono o percepiscono se stessi come superpotenze oggi sono diventati sovranisti. Di multilateralisti, restano solo i medio-grandi e le vecchie potenze industriali europee. In altri termini chi pensa di avere la taglia o la leva geopolitica o la forza militare necessaria – India, Russia, Stati Uniti, Cina, Brasile, Arabia Saudita – oggi ritiene più utile cercare di imporre la propria legge sugli altri e farsi giustizia da sé. Solo potenze medie come Italia, Germania, Sudafrica, Australia, Giappone o Corea del Sud puntano ancora sul diritto internazionale.
Naturalmente il peso economico del fronte multilateralista tornerebbe maggioritario (il 65% del Pil del G20) se l’America tornasse nei vecchi ranghi dopo Trump. Ma sicuro è solo il fatto che oggi non è così. La globalizzazione 2.0 somiglia sempre più a un mondo hobbesiano da «homo homini lupus» nel quale nessun Paese europeo ha la taglia per difendersi da solo. Più che mai serve l’Unione europea ma, forte di 440 milioni di persone e 20 mila miliardi di dollari di Pil, forse più «sovranista» di quella conosciuta fin qui.