Corriere della Sera, 2 settembre 2019
Ritratto di Gaetano Scirea
Trent’anni dopo la sua morte è giusto ricordare non più la differenza di Scirea, ormai raccontata, ma il suo silenzio. Scirea era un giocatore diverso soprattutto in questo, era gentile, umile, educato, disponibile e senza parole. Nemmeno l’Italia della televisione a colori (1978, Mondiali argentini) si accorse seria-mente di lui, scelse altri fidanzati per la patria, da Cabrini a Rossi, secondo nor-malità. Il calcio sostituiva nell’immagi-nario i gossip sui reali e gli attori, diventava un vero mestiere, e Scirea lo rappresentava sfilando con discrezione di lato. Ma era il giocatore migliore che avevamo. Ai Mondiali di Spagna aveva 29 anni, era un leader di cui nessuno ricorda adesso niente oltre la presenza. Successe di tutto, fu inventato il silenzio stampa, giocatori, Bearzot e giornalisti vennero vicini alle mani, qualche volta si toccarono anche, ma nessuno riuscì a sentire una parola di Scirea. Per me che ero lì con loro, Scirea non ci fu mai nel rumore della nazionale, negli incredibi-li precedenti che si costruivano giorno per giorno. Sono stati scritti più di cento libri su quel Mondiale, credo di averne letti la metà, qualcuno lo ho anche scritto. Ma non ho mai trovato una parola di Scirea. Era come se il calcio fosse qualcosa di oltre per lui, come se tutta la vita lo fosse, quella ricca che aveva raggiunto lui figlio di un emigrante siciliano che aveva trovato un posto da operaio alla Pirelli e una casa a Cernusco sul Naviglio. Cosa c’era da discutere in un mondo che aveva dato tutto a chi era partito da molto lontano? Scirea giocava e basta, con una classe non limitata dall’ambizione, era calcio puro, divertito, corretto. Forse per questo non fu mai espulso una volta nonostante fosse l’ultimo dei difensori. Ho letto perfino che non fu mai ammonito, ma mi sembra troppo. Eppure sta nei libri. Delle sue cifre tutti ricordano tutto: 7 scudetti, 552 presenze con la Juve, battuto solo da Del Piero nel 2008 e in fondo a un calcio che si era moltiplicato. La sua linea difensiva classica partiva da Gentile e Cabrini ai lati passando da Brio al centro e Furino primo difensore di centrocampo. In questo vecchio schema in cui si ritrova intatto il gusto di un’adolescenza italiana ancora quasi da dopoguerra, Scirea nel suo silenzio interpreta, forse inventa, un nuovo ruolo: il centrocampista di classe, oggi si direbbe alla Pirlo, che diventa Libero, si mette di fianco alla difesa e la dirige come fosse un eterno inizio del gioco. Scirea era una splendida mezzala da ragazzo nell’Atalanta, voleva diventare Suarez o Rivera. Diventa un vero trequartista nella propria area di rigore. Un giocatore che c’era stato una sola volta, in Germania, e si chiamava Beckenbauer. Anche se non è nemmeno giusto confrontarli, avevano rughe sottili e diverse, ugualmente universali. Scirea è morto il 3 settembre dell’89, trent’anni fa, tamponato da un tir mentre stava tornando a Varsavia da una trasferta di lavoro per la Juve. Era andato a vedere il Gornik Zabrze, un prossimo avversario. L’auto su cui viaggiava con l’autista, l’interprete e un dirigente polacco prese fuoco nell’urto anche perché nel bagagliaio c’erano quattro taniche di benzina. Erano forse le ultime taniche del mondo comunista, pochi mesi dopo finiva un’epoca ed avrebbero aperto i benzinai. Scirea non riportò nessuna frattura, nessun «infortunio», dal tamponamento. Semplicemente bruciò. In un grande silenzio.