la Repubblica, 2 settembre 2019
Gaetano Scirea ricordato dal figlio
Ora che il bambino è già più vecchio del padre quando il padre gli disse addio, il ricordo è un dolore diverso. Ci si può camminare insieme. Riccardo Scirea aveva dodici anni quando il padre morì, e domani saranno trent’anni. Oggi Riccardo è un uomo di 42, analizza al computer i dati delle gare della Juventus, insomma fa a tavolino quello che Gaetano faceva, in parte, sul campo. Gli somiglia in modo impressionante, e questo è bellissimo: il segno del tempo che non ci lascia mai del tutto. L’orma di un papà su cui appoggiare i nostri passi, e andare.
Camminiamo con Riccardo nella sua, nella loro Torino. Quartiere della Crocetta, quello dei nobili, dei ricchi veri e dei medici specialisti. La casa è al numero 43 di via Cassini. C’è un silenzio da acquario, ma visto dalla parte dei pesci. «Papà mi prendeva per mano e salivamo lungo la strada diritta, verso la chiesa dove un giorno gli avrebbero fatto il funerale. Ogni tre passi un saluto, la gente lo conosceva come uno del borgo, non solo come Gaetano Scirea. Qui sotto, al bar Caboto, mi portava a mangiare la brioche. Era bello avere questo papà tutto per me. Quello era il nostro fruttivendolo, allora i campioni facevano la spesa in bottega, ma ci pensate? E lì, dove oggi c’è un piccolo negozio di vestiti vendevano dischi. Papà mi regalò il primo di Jovanotti,Gimme five, io avrei voluto il cd, lui prese il vinile, mi disse: poi resterà. La casa era grande ma nel ’90 la vendemmo, troppi ricordi. Però ne comprammo un’altra del cuore, quella che era stata di Zoff».
In corso Turati, niente è cambiato di quel palazzo. Nulla sembra cambiare mai, nel mondo che ci porta via lentamente tutto. «I vetri fumé dell’atrio sono proprio gli stessi. Dino e Anna vivevano al nono piano, da lassù si vedevano le montagne e Superga, c’era una luce grandissima in quella casa. La sera ci trovavamo tutti insieme: papà, Dino, le loro mogli e noi bambini: io e Marco. Dino mi chiamava Gigi Riva perché a pallone ero mancino. Allora, Gigi Riva, hai fatto gol? mi diceva e voleva sapere. I grandi giocavano a carte, io e Marco facevamo una palletta con lo scotch e ci scatenavamo pazzamente in corridoio, questo io lo facevo anche a casa con mio padre ma spaccavamo tutto, volavano i vasi e la mamma si arrabbiava. Quella sera mia madre era da Anna, come sempre, io invece al mare con i nonni. Lo disse Sandro Ciotti alla Domenica Sportiva e io lo seppi così, dalla televisione. Con mamma decidemmo di comprare questa casa quando Dino e Anna andarono a Roma, fu quasi come perdere due papà e un’altra mamma in una manciata di mesi. Scendevo tre o quattro volte a Roma, da Dino che mi portava all’allenamento della Lazio. Ricordo Paul Gascoigne che scherzava con me».
Con Anna, Dino, Marco, papà e mamma, il ragazzino Riccardo andava al ristorante tutti i giovedì sera. Il posto è in centro, Da Mauro, in via Santa Teresa. Questa città piena di santi, re, principi e vuoto. «Terza sala, primo tavolo a sinistra, il nostro. La signora Rosanna, la cameriera, ci chiedeva: il solito? Io prendevo i tortellini con la panna. Papà e Dino si controllavano, bistecca e insalata, ma alla fine della cena un bicchierino di Montenegro per tutti e due e la punta rossa di una Marlboro. Rosanna è ancora viva, avrà novant’anni, Mauro invece è mancato. Il tempo ha permesso a queste immagini di non farmi più tanto male, però finì di colpo con la morte di papà. I nostri riti diventati impossibili, quella felicità perduta per sempre. La mia infanzia è stata bellissima».
Qui al campetto dell’Atletico Mirafiori — ormai è sera, quando ci arriviamo – Gaetano accompagnava Riccardo a calcio dove la città un poco scappa. Antica periferia operaia, ed è ancora così. «Si arrivava sulla nostra Lancia Thema, tutti mi chiedevano: ma tuo padre quando viene? Avevamo la divisa blu e gialla, i colori di Torino, come quella di papà quando alzò la Coppa delle Coppe a Basilea. Lui si metteva in disparte e non diceva niente, nessun consiglio tecnico, meno che mai una critica, alla fine mi chiedeva solo: ti sei divertito? Non voleva che il suo nome cadesse su di me, ed è per questo che ho smesso col calcio diversi anni dopo, quando ne avevo 24. Non potevo mica vivacchiare in serie C chiamandomi Scirea».
Riccardo guida la sua Jeep bianca nel traffico già caotico, infiliamo corso Vittorio Emanuele davanti alla stazione di Porta Nuova e poi saliamo in collina, a Valsalice, due curve dietro il ristorante Giudice. Odore di alberi. «A fine carriera papà volle imparare a giocare a tennis, con mamma venivano qui al circolo Match Ball insieme a Platini che era bravo anche con la racchetta, papà invece un principiante ma era un agonista e alla fine vinceva in tutto, fossero pure le bocce, la canasta o il ping pong».
È piccola, Torino. Dalla collina si scende allo stadio Comunale in dieci minuti, si corre come l’acqua verso il Po. «Sono stati i miei giorni della gioia. Papà mi portava all’allenamento, ero proprio piccolo e tutti mi coccolavano, i giocatori mi tenevano sulle ginocchia. Mi mettevo una tuta e correvo sul campo con loro. A pensarci oggi è semplicemente pazzesco, neanche il figlio di Ronaldo potrebbe farlo. Saltavo la scuola e venivo qui, poi si attraversava via Filadelfia in mezzo ai tifosi e si andava al campo Combi, l’ultimo laggiù, adesso c’è una piscina. Erano tutti gentilissimi con me, il Trap, il magazziniere Romeo che era un uomo minuscolo, il professor Gaudino, il massaggiatore Remino. Un mondo, il nostro mondo, la Juve. Poi, certo, la domenica io e mamma venivamo a vedere giocare papà, ci mettevamo nel nostro solito posto e io aspettavo che lui entrasse in campo, guardasse verso la tribuna e salutasse. Alzava il braccio e lo muoveva lentamente come per dire ciao, sono qui, va tutto bene. Io lo so che non poteva vedermi, ma so anche che quel saluto era solo per noi». Un papà ti guarda sempre, anche quando sembra non poterti più trovare.