La Lettura, 1 settembre 2019
Biografia del cuore
Si sentiva «come un parroco di campagna che ha appena saputo di essere stato nominato vescovo». Così affermò Werner Forssmann ricordando il momento in cui lo informarono che aveva vinto il premio Nobel nel 1956. Il sinedrio di Stoccolma onorava il temerario auto-esperimento che quasi trent’anni prima aveva portato l’allora neolaureato in medicina a realizzare il cateterismo cardiaco nell’uomo. L’invenzione vincente di Forssmann era stata come la liberazione dall’ossessione che aveva dominato la sua mente nei mesi precedenti. Con il semplice aiuto di un’infermiera si era infilato nella vena principale del braccio un catetere vescicale, spingendolo progressivamente verso la camera destra del cuore, incurante della sensazione di bruciore prodotto dal raschiare della sonda flessibile che avanzava sulle pareti della vena. Era poi corso nella sala radiologica, mentre il tubo penzolava dal suo braccio sanguinante, per documentare con la forza dell’immagine radiografica il successo di un’idea destinata a mutare per sempre la cardiologia.
Ma il riconoscimento della comunità medica non giunse immediatamente. Uno dei principali chirurghi tedeschi affermò che Forssmann aveva impiegato metodi «al massimo degni di un circo», nei congressi veniva ignorato, mentre i suoi interventi erano sempre programmati in coda alle sessioni e ricevevano scarsa attenzione. Sentendosi incompreso e osteggiato, il giovane medico abbandonò amareggiato la cardiologia interventistica, dopo molti esperimenti sugli animali, passando alla pratica professionale della meno audace e più routinaria urologia. Finì così in una cittadina della Foresta Nera a esercitare privatamente tale specialità. Quando inopinatamente fu ripescato dalla storia e si vide assegnare il premio Nobel, la tecnica da lui inventata stava ormai cambiando in profondità la cardiologia e dalle sue applicazioni avrebbero preso origine l’angiografia coronarica, l’angioplastica e gli interventi di inserimento degli stent nei vasi cardiaci, che hanno mutato in profondità le prospettive di vita di innumerevoli pazienti.
La vicenda di Forssmann è soltanto una fra le molte rievocate da Sandeep Jauhar, un cardiologo americano di origini indiane, nel libro Il cuore. Una storia (Bollati Boringhieri). Mischiando abilmente esperienze personali e traversie drammatiche della cardiologia-cardiochirurgia, un po’ come Oliver Sacks aveva fatto con il cervello e la neurologia, nel suo racconto trasforma l’organo propulsivo dei moti circolatori del sangue in tema per la narrazione di una lunga avventura della medicina. Una storia che colpisce per intensità, carico di dolori, morti improvvise, tentativi di riscattare con l’astuzia della scienza le ingiustizie crudeli della natura.
Utilizzando come cifra narrativa alcune sue esperienze di vita familiare – come l’improvviso decesso del nonno – che lo avevano spinto a trovare la vocazione per diventare cardiologo, Jauhar illustra vividamente – e con qualche concessione alla descrizione a tinte fosche e quasi splatter – i fatti salienti che hanno permesso, nel secolo passato, di abbattere il tabù dell’inviolabilità del cuore, della sua totale inaccessibilità allo studio diretto e alla manipolazione chirurgica.
L’attacco conoscitivo e operativo a questo santuario del corpo, protetto nella fortezza della gabbia toracica, i cui battiti hanno scandito il ritmo del tempo, è stato uno dei trionfi della medicina del Novecento. Impresa possibile solo grazie a menti anticonformiste, capaci di sfidare le convenzioni e il senso comune.
Il cuore da sempre è stato infatti un organo ambiguo, crocevia della medicina, ovviamente, ma anche della letteratura poetica, della religione, della filosofia. Simulacro dell’amore e della passione, ha assorbito molteplici significati fin dalla remota antichità, diventando, nelle varie società, metafora della vita, dell’amore, della bontà e del sentimento, ma anche sede delle sensazioni e della memoria, come sostenne Aristotele. Era circonfuso di un’aura mistica ancora nel corso del Novecento. Come racconta Jauhar, quando nel dicembre 1982 a Salt Lake City venne impiantato al dentista Barney Clark il primo cuore artificiale, la trentanovenne moglie chiese preoccupata ai chirurghi: «Sarà ancora in grado di amarmi?».
Nonostante tali timori, quest’organo ha visto sgretolarsi l’immagine simbolica che rimandava ad altro per diventare, più prosaicamente, una macchina meravigliosa, ma pur sempre una macchina, anche se al centro di una rete neurovascolare complessa estesa a ogni distretto corporeo.
Ogni vicenda raccontata da Jauhar, che di solito inizia con il ricordo di un episodio della sua vita professionale descritto con sincerità anche quando fallimentare (cosa non proprio comune nei resoconti autobiografici dei medici), apre su scenari drammatici e talvolta tragici, ma anche su successi straordinari. Rivivono così vicende che ancora oggi sembrano fantascientifiche, come la descrizione degli interventi di Clarence Walton Lillehei, il primo operatore a usare l’ipotermia in un intervento a cuore aperto per rallentare il deterioramento metabolico indotto dal calore e, inoltre, pioniere della circolazione extracorporea, inizialmente eseguita collegando il sistema vascolare di un giovane paziente a quello del genitore con lo stesso gruppo sanguigno (circolazione incrociata). Oppure studi che hanno inciso profondamente nella vita quotidiana, come l’indagine epidemiologica pianificata nella città di Framingham, vicino a Boston, per accertare il rischio potenziale di sviluppare una malattia cardiaca in un individuo apparentemente esente da questo tipo di patologia. Migliaia di persone seguite per anni rivelarono la stretta correlazione fra ipertensione arteriosa, alti livelli di colesterolo, fumo di sigaretta, diabete mal curato e patologia cardiaca. Risultati che hanno cambiato il concetto di prevenzione delle malattie cardio-vascolari.
Anche per questo il libro di Jauhar racconta una storia che in fondo riguarda ognuno di noi.