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 2019  settembre 01 Domenica calendario

Intervista allo scrittore Jeffery Deaver

«Non c’è competizione fra scrittori. I lettori possono permettersi di comprare il mio libro e quello di un altro autore, non produciamo Ferrari o Maserati. I miei veri rivali, in un mondo che legge sempre meno, sono la tv, i videogiochi e i social media, che rubano tempo ai miei libri. Per questo il mio ultimo romanzo, Il gioco del mai, è scritto con uno stile molto diverso dai precedenti. È più breve, i paragrafi sono più corti, nei dialoghi uso parole semplici, ci sono meno pensieri interiorizzati. In poche parole, imito il linguaggio di Netflix, di Sky, dei canali in streaming… Voglio portare quel modo di fare comunicazione nei miei libri. Molto veloce. E dovrò anche essere più rapido nello scrivere. Finora pubblicavo un libro all’anno, sto cercando di accelerare per tenere il passo con i miei avversari». 
Statunitense, 69 anni, Jeffery Deaver è già uno degli autori più prolifici del pianeta: i suoi romanzi gialli sono bestseller venduti in 150 Paesi e tradotti in 25 lingue. L’abbiamo incontrato in Inghilterra per parlare (prima) di cani – «Bella la foto dei suoi sul salvaschermo, guardi i miei pastori di Brie» – e (dopo) della sua nuova serie di crime stories, che inizia con Il gioco del mai e ha come protagonista un cacciatore di taglie. O forse sarebbe meglio dire di ricompense: Colter Shaw trova persone scomparse o in pericolo.
Come nasce il nuovo eroe?
«Alcuni anni fa ho scritto una serie su un film location scout, John Pellam. Un tipo che gira in lungo e in largo il Paese alla ricerca di set cinematografici e, casualmente, fa il detective dilettante. Mi piaceva l’idea di un protagonista itinerante, ma il fatto che lavorasse per una compagnia di Hollywood e si trovasse a risolvere crimini per strane coincidenze mi sembrava un po’ artificiale. Così ho iniziato a pensare a un nuovo personaggio, che mi avrebbe permesso di raccontare storie in luoghi diversi in modo più realistico».
Colter è un lupo solitario…
«È il classico leitmotiv del western americano. Il cowboy alla Sergio Leone, l’uomo senza nome interpretato da Clint Eastwood, il personaggio in cui si riflettono moltissime persone. Forse perché tutti noi siamo un po’ solitari. Il fatto che sia un uomo solo mi permette di metterlo in relazione con persone nuove, storie che possono proseguire o interrompersi. Un buon libro deve raccontare esperienze coinvolgenti ed emozionanti, per avere una marcia in più deve esserci il rischio del pericolo fisico ma anche di quello emotivo».
C’è qualcosa di lei in Colter Shaw?
«Sì, anch’io sono un po’ solitario. Vivo solo. Ho avuto delle relazioni, certamente. Ho una compagna e faccio una bella vita. Scrivo per vivere, ma viaggio anche molto. Soprattutto per promuovere i libri e fare ricerche. Quest’anno ho percorso in volo oltre 225 mila chilometri (e abbiamo da poco superato la metà anno). Ma ci sono altri aspetti di Shaw che non condivido: ad esempio, non mi arrampico in montagna, avevo una motocicletta – una Benelli, italiana – ma ora non più…».

La storia è ambientata nel dark side, il lato oscuro, della Silicon Valley. Molto diversa da quella che tutti noi immaginiamo. Come mai?
«Mi ispirava l’idea di scrivere un libro sul lato oscuro dell’industria dei videogiochi. Potevo ambientarlo ovunque in effetti, ma volevo che Colter Shaw s’immergesse nella cultura della Silicon Valley dove quell’industria prospera. Avevo già scritto un libro ambientato lì, Profondo blu, sugli hacker dei computer. Vent’anni dopo, la Valley è perfino più oscura. C’è così tanto denaro e così tanta povertà. Un ritratto dell’America di oggi».
Dietro il thriller, un gioco: ti svegli solo, nel mezzo del nulla, accanto a te cinque oggetti, devi capire come usarli per sopravvivere oppure morire con dignità. Ha fatto ricerche particolari prima di iniziare a scrivere il romanzo?
«Per tutti i miei libri faccio otto mesi di ricerche e uno schema. Non scrivo una singola parola prima di aver finito questo lavoro preparatorio. Sono andato nella Silicon Valley, ho parlato con diverse persone ma ho fatto anche tanta ricerca “inanimata”. Possiamo ottenere quasi tutte le informazioni online. Quando parlo con le persone rischio di esserne così affascinato da allontanarmi dalla trama che ho in mente. E a un certo punto fermo la ricerca: devo sapere abbastanza, non troppo. Lo scrittore deve evitare di diventare digressivo e rallentare la storia».
Colter è cresciuto in una famiglia molto particolare. Senza tv, senza internet, immerso nella natura… È una critica indiretta al modo in cui la società alleva le nuove generazioni?
«Nei libri cerco sempre di non fare dichiarazioni perentorie, non ho alcuna intenzione di fare il predicatore o roba del genere. Ho solo preso atto della diffusione in America del survival movement, che spinge alcune persone a ritirarsi dalla società dei consumi: alcuni sono pericolosi altri sono assolutamente normali. Per quanto riguarda l’educazione, in generale, credo che in America sia assolutamente necessario destinare maggiori risorse pubbliche alla scuola e alla cultura».
Ha fiducia nell’attuale amministrazione?
«Oh, no! Trump non mi piace per nulla. Provo per lui una profonda avversione. Non mi piacciono le sue politiche, il suo modo di fare, i suoi valori. Tutto ciò lo ritrovo un po’ anche in Italia, mi pare, con la Lega e la sua politica conflittuale. Il populismo dilaga… È triste».
Pensa che la letteratura possa contrastare questa ondata populista?
«Sì. Ogni volta che sei esposto a un punto di vista differente, puoi comprendere meglio le ragioni degli “altri”. Il governo e anche molti americani descrivono gli immigrati come il male, come persone pericolose. Io penso che il nostro problema migratorio innanzitutto sia ben poca cosa rispetto a quello che state affrontando voi, un Paese molto più piccolo con molta più gente che cerca di entrare. E poi, chi attraversa illegalmente la frontiera cerca solo di migliorare la propria vita, tra loro ci sono ben pochi criminali, assassini o stupratori. I criminali del Sud America, quelli veri, entrano negli Stati Uniti legalmente, in aereo. La letteratura può aiutare a comprendere anche questi aspetti».
La politica usa molto la paura?
«Ho scritto un libro, Il giardino delle belve, in cui racconto come Hitler non avesse – sostenevano alcuni – nessuna opinione rispetto agli ebrei. Aveva però capito che descriverli come il nemico e alimentare la paura nel popolo tedesco gli avrebbe garantito il sostegno di massa. Creare dal nulla un nemico comune è uno dei modi più semplici per garantirsi il successo».
Ha in mente qualche personalità carismatica che possa imprimere una svolta nella politica statunitense, tra i candidati alla nomination democratica?
«Bernie Sanders non mi piace, perché non sono un socialista ma un capitalista con coscienza. Kamala Harris è la mia preferita. Ma non vedo nessuno che abbia il carisma di Barack Obama».
Mister Deaver, cos’è centrale in una crime story, oltre all’effetto sorpresa?
«Ovviamente, i colpi di scena. Ma un altro aspetto fondamentale è che il lettore si continui a porre la domanda: “E adesso che succede?” L’assassino colpirà ancora? La donna innamorata del protagonista sarà delusa? Il bambino troverà i genitori? Questo è il motore della storia».
Si pone mai un limite nel descrivere il Male?
«Un thriller deve essere emotivamente coinvolgente ma deve anche essere piacevole. Non metterò mai nei miei libri scene di violenza estrema, sui bambini, ad esempio, o sugli animali. Evito la violenza sessuale. Penso che il lettore debba in qualche modo essere ipnotizzato dal furfante, quasi sedotto, perché in fondo è lui il protagonista. I miei cattivi sono molto intelligenti, fuori dal normale, non sono sporchi e raccapriccianti. Mi piace che sia un po’ come la serie  Il Trono di Spade, due nobili cavalieri che si combattono, il buono e il cattivo».
Il buono vince?
«Sì, nei miei libri vince sempre. Possono esserci perdite lungo la strada, ma alla fine l’eroe deve trionfare».
Il miglior complimento ricevuto?
«Tempo fa mi chiama un amico per raccontarmi che, entrando in camera, la prima notte di nozze, aveva trovato la moglie che leggeva un mio romanzo. “Prima devo finire questo”, gli aveva detto alzando a malapena gli occhi. Beh, se i miei libri sono più popolari del sesso...».
Il romanzo che l’ha più influenzata?
«Il Signore degli Anelli di Tolkien. E poi Ian Fleming, Agatha Christie, un amalgama di vari scrittori».
Colter Shaw verrà mai in Italia?
«Sto scrivendo il secondo libro, se la serie continua andrò avanti. E perché no, io amo l’Italia».
Una delle due short stories di «Promesse» (pubblicato da Solferino) è ambientata in Italia…
«Sì, sul Lago di Como. Anche se non ho incontrato George Clooney, mi piace molto... Lincoln Rhyme e Amelia Sachs scelgono Bellagio per sposarsi ma anche in luna di miele non possono evitare di essere circondati da cadaveri…».