Il Sole 24 Ore, 1 settembre 2019
Il sillabario di genetica di Guido Barbujani
Parliamo di genetica. La pelle non lascia fossili, ma oggi esiste un metodo di machine learning, una forma di intelligenza artificiale, che permette di capire di che colore fosse la pelle di persone del passato, se nelle loro ossa è rimasto un po’ di DNA. Il margine d’errore, al momento, è sotto il 4%. Genetisti inglesi sono riusciti a estrarre DNA dai resti, conservati al Museo di Storia Naturale di Londra, di un uomo di 9mila anni fa: il Cheddar man. Il risultato è stato sorprendente: Cheddar man, e altri suoi contemporanei, in Spagna, Svizzera e Lussemburgo, avevano pelli molto scure (e, tre di loro, occhi azzurri). Insomma, gli europei hanno conservato a lungo, fino al Mesolitico, la pelle scura dei loro antenati africani.
Nel febbraio 2018 mi chiamano a parlarne in un programma televisivo, e l’intervista finisce poi su YouTube. Qualche tempo dopo mi viene la curiosità di leggere i commenti. Sono parecchie pagine. A parte quelli che danno per scontato che l’umanità è stata «manipolata geneticamente dagli Annunaki», vengo definito ciarlatano, prezzolato, becero, merdoso moralista, ultimo genetista darwiniano scovato chissà dove, cartomante abbrutito dalla miseria, ebete. Copio qui il parere di un signore che si firma aramb10: «Sicuramente Barbujani è ebreo, come Barbara Spectre. Ebreo del cazzo. Non è colpa mia neanche se sei un Ebreo lebbroso e in passato la tua stirpe è stata salvata (purtroppo), anche se piangete sempre per la shoah. (…) Lasciare l’ultima parola a un ebreo di mmmerda come te è un attributo positivo di chi rispetta l’umanità ma ne distingue le razze, specialmente con la tua, e poi dimmi di che etn ia è il tuo cane ops o di che razza. Le razze esistono idiota, che poi la tua sia da eliminare questa è altra cosa, anzi è la cosa».
Va bene, allora parliamo sempre di genetica, ma di un’altra genetica. Le piante di riso producono un precursore della vitamina A, il betacarotene, che però finisce nelle foglie, non nel chicco. Quindi, chi mangia soprattutto riso dovrebbe integrare la dieta con carote, pomodori o peperoni, che però in molti paesi sono scarsi e cari. Così (è un dato dell’Organizzazione Mondiale della Sanità) nel Sudest asiatico 670mila bambini all’anno perdono la vista, o la vita, per un deficit di vitamina A. Nel 2000 Ingo Potrykus e Peter Beyer sono riusciti a inserire nel riso tre geni grazie ai quali il betacarotene si accumula anche nel chicco. Grazie a questi geni il riso assume una colorazione dorata, per questo lo chiamano golden rice, e fornisce abbastanza betacarotene da ovviare, potenzialmente, al deficit di vitamina A. La società che lo produce, l’IRRI, è un’organizzazione no-profit per lo sviluppo dell’agricoltura sostenibile, ma la commercializzazione dei semi di golden rice è bloccata dall’opposizione di diverse organizzazioni ambientaliste contrarie agli OGM.
A maggio 2019 l’ANPI di una cittadina toscana mi invita a parlare di bufale scientifiche. Sono figlio e nipote di partigiani, e accetto con entusiasmo. A un certo punto cito il caso del golden rice, e racconto come la famosa attivista Vandana Shiva, dopo aver diffuso due notizie false (prima che le piante normali di riso contengono tanto betacarotene quanto quelle di golden rice, poi che nel golden rice ci sarebbe troppa vitamina A) adesso sostenga che il problema è politico. Certo che è politico, dico, la povertà è un problema politico; ma in attesa di vivere in un mondo più equo (fra dieci anni? Fra cento?), ci sta bene che diventino ciechi o muoiano centinaia di migliaia di bambini ogni anno? Molti non sono d’accordo. La discussione si sviluppa in modo prima ordinato, poi caotico; a un certo punto un signore mi urla: «Te dovresti baciarle i piedi a Vandana Shiva, te sei un disonesto!». Per la prima (e spero ultima) volta in vita mia, metto giù il microfono e me ne vado.
Il Sillabario di genetica per principianti l’ho scritto fra febbraio 2018 e maggio 2019, cioè fra questi due episodi. Mi sembra che illustrino bene il sentiero stretto su cui oggi si procede quando si parla in pubblico di genetica. Sui temi che ci toccano da vicino, come la diversità umana o gli OGM, le posizioni sono polarizzate; non c’è curiosità per le opinioni altrui, scatta immediatamente l’anatema; lo spazio per un civile dissenso sui temi in discussione si è ridotto, si passa presto agli insulti personali. Eppure, proprio per questo forse vale la pena di scrivere un libro. È vero, faccio parte di una generazione che pensava di aver capito tutto, e oggi si trova disorientata di fronte a rivolgimenti sociali inaspettati. D’improvviso ci rendiamo conto di quanto sia difficile mettere in pratica la massima di Terenzio «Sono un essere umano, nulla che sia umano mi è estraneo». Ma almeno su una cosa non ho dubbi: tutto questo non va bene, bisogna far di tutto per riportare il discorso sul terreno della razionalità. Come il Diritto, la Scienza è un tentativo di ridurre i conflitti per mezzo della razionalità. Se rinunciamo alla possibilità di confrontarci secondo ragione, resta solo lo scontro dove prevale il più brutale. Bisogna tener duro, aggrapparsi al ragionamento con le unghie e con i denti.
Questo libro parla di quanto la genetica abbia a che fare con la nostra vita, e anche di quante questioni restino aperte, nonostante i formidabili progressi degli ultimi anni. Ancora non sappiamo dire quanto si nasca intelligenti, o timidi, o affascinanti, o magari propensi a delinquere, o ad ammalarci di certe malattie, e quanto invece lo si diventi. Ma per riuscire a capirci, e penso lo dimostrino le reazioni virulente a cui accennavo, ci vogliono fondamenta solide. È per questo, penso, che può tornare utile un testo semplice, appunto un Sillabario; però anche un libro semplice richiede qualche sforzo al lettore. Ho cercato di indorare la pillola raccontando qua e là delle donne e degli uomini che hanno fatto la storia della genetica, perché lo studio dei geni, come tutte le imprese umane, è anche frutto di passioni, simpatie e antipatie, rivalità e collaborazioni. Ma è come imparare una lingua: per poter leggere Proust bisogna cominciare con la grammatica. Ammetto che ho delle belle pretese: pretendo che i lettori, a letto o sul sofà, si concentrino, diciamo, su come e perché si formano le ali dei moscerini. Però serve: serve perché capendo le basi della genetica si può poi passare a discutere seriamente se sia vero o no che gli OGM sono pericolosi, se i nostri geni condizionino le nostre preferenze sessuali, o se abbia senso per l’uomo una classificazione in razze.
Queste domande arrivano nei capitoli finali. E ci sono risposte, o tentativi di risposta, che, come ogni prodotto della scienza, potranno resistere a lungo oppure dovranno essere corretti, aggiustati per tener conto delle nuove conoscenze che si accumulano. Gli haters di YouTube, o certi sanguigni toscani, non si rendono conto (e me ne dispiace per loro) che la bellezza della ricerca sta proprio qua: nei dubbi che genera, non nelle certezze. Ogni passo avanti produce nuove conoscenze ma anche nuove domande, da cui nascono nuovi esperimenti che ne solleveranno per forza delle altre. Mi piacerebbe se dalle pagine di questo Sillabario trasparisse, almeno un po’, il piacere della conoscenza che anima e motiva noi che facciamo ricerca: che è poi la molla che ci spinge avanti, anche quando la razionalità non tira, i fondi scarseggiano, e sulle cosiddette elite intellettuali piovono pietre.