Il Sole 24 Ore, 1 settembre 2019
Tra Usa e Cina guerra dei cavi sotto i mari
Uno scontro di cui si parla poco. È la battaglia economico-industriale (e non solo) tra Stati Uniti e Cina sul controllo dei cavi sottomarini per le telecomunicazioni.
Il conflitto, parallelo e intimamente connesso a quello ben più noto dei dazi commerciali, ha una rilevanza fondamentale. Sul fondo di oceani e mari interni, secondo Telegeography, a inizio del 2019 erano in funzione circa 378 “submarine cable” per una lunghezza complessiva di oltre 1,2 milioni di chilometri.
Un’infrastruttura subacquea che, nel corso di più di un secolo e mezzo (il primo cavo telegrafico sottomarino tra Calais in Francia e la britannica Dover risale al 1851), è diventata il sistema nervoso centrale delle telecomunicazioni globali. L’Information technology & Innovation fundation (Itif) ricorda come il 99% del traffico internazionale di dati e voce passi, per l’appunto, nelle fibre ottiche sottomarine. E le previsioni indicano la loro progressiva crescita: da un lato, dice sempre Itif, tra il 2019 e il 2021 sono previsti più di 50 progetti di nuovi cavi; dall’altro, a causa della domanda di ulteriore capacità in scia alla digitalizzazione dell’economia, il mercato dei “submarine cable” dovrebbe raggiungere il valore di 30,8 miliardi di dollari nel 2026 (contro i 10,3 miliardi del 2017).
La rotta di collisione
Insomma i numeri spiegano l’assoluta centralità dei cavi che fanno compagnia a pesci e coralli. Una centralità che, a fronte della progressiva espansione di progetti e investimenti cinesi, ha contribuito a mandare in rotta di collisione Washington e Pechino. «La Cina – spiega Alessia Amighini, codirettore programma Asia dell’Ispi – già nella prima decade del 2000», tramite il gruppo Transsion,«ha avviato la penetrazione e conquista del business della telefonia mobile in Africa». Una strategia forse snobbata dall’Occidente. «Adesso però, rispetto al tema più generale dei cavi sottomarini, c’è un salto di qualità legato soprattutto al dispiegarsi delle Vie della seta» digitali. «Si tratta di un contesto – fa eco Alessandro Aresu, direttore scientifico della Scuola di Politiche – in cui, da una parte, l’incremento della presenza nei “submarine cable” è complementare all’espansione via mare di Pechino; e che, dall’altra, dà inevitabilmente luogo allo scontro commerciale». «Anche perché – aggiunge Carlo Alberto Carnevale Maffè, docente di strategia aziendale alla Sda Bocconi – queste vie della seta sotto il mare hanno una peculiarità». Vale a dire? «A differenza di quelle fisiche, le strade digitali possiedono la memoria, ricordano ciò che transita in esse. Quindi non è solo importante construirle ma anche, e soprattutto, gestirle». Fino a qualche tempo fa gli utilizzatori dei cavi, giusto o sbagliato che fosse, «ipotizzavano – sottolinea Maffè – una certa neutralità delle connessioni sottomarine perché realizzate essenzialmente da società private occidentali soggette alle regole di mercato. Questa realtà va mutando e sorgono così i contrasti».
Già, i contrasti. Ma in quali aree geografiche si combatte la nuova guerra fredda? «Una zona –risponde Aresu – è certamente quella dell’Oceano Pacifico e del Sudest Asiatico». Proprio alcuni giorni fa, secondo il Wsj, il comitato multi-agenzia guidato dal dipartimento della Giustizia statunitense (Team Telecom) ha espresso un parere sfavorevole per bloccare il Pacific Light Cable Network. Cioè: il cavo di circa 12.900 chilometri, in cui sono coinvolti Google, Facebook e un partner cinese, e che dovrebbe collegare direttamente Los Angeles ad Hong Kong. La motivazione addotta dagli americani è la tutela della sicurezza nazionale. Nel passato lo stesso Team Telecom ha approvato diversi cavi sotterranei, sia in collegamento diretto con l’Impero di Mezzo sia con operatori telecom controllati da Pechino. Se arrivasse lo stop si tratterebbe, sottolinea il Wsj, della prima volta che la licenza per un “submarine cable” viene negata con una simile motivazione. Il segnale, che oltre alla concorrenza sempre più serrata tra i diversi attori, lo scontro tra Usa e Cina aumenta d’intensità.
A ben vedere, però,il tema della sicurezza nazionale, seppure non ufficialmente, aveva già fatto capolino in un’altra situazione. Nel 2018 era stato bloccato un progetto di Huawei Marine (il braccio operativo nei cavi del colosso tlc cinese, di cui la stessa Huawei ha deciso di cedere il 51% alla connazionale Hengtong) per un collegamento tra Sydney e le Isole Salomone. L’intesa tra il Governo di quest’ultime e Huawei Marine risaliva al 2016. Due anni dopo l’esecutivo austrialiano, stanziando dei fondi per lo sviluppo delle stesse Isole Salomone, di fatto ha fermato l’operazione assumendosene gli oneri. Ufficialmente il tema della “security” non è stato indicato. Tuttavia, sebbene il gruppo cinese si fosse dichiarato disponibile a controlli da parte di terzi su ogni hardware o software di gestione del network, deve ricordarsi che l’Australia fa parte dei “Five eyes”. Cioè dell’associazione di intelligence sulla sicurezza che comprende anche Canada, Gran Bretagna, Nuova Zelanda e soprattutto gli Usa.
La “Pace” cinese
Ma non sono solamente i mari del Far East. Un progetto da ricordarsi è il cosiddetto “Peace” (Pakistan & East Africa connecting Europe). Si tratta di un cavo, la cui entrata in funzione è prevista nel 2020, che coinvolge aziende cinesi tra cui Huawei Marine ed altre realtà della galassia di Hengton. «In questo caso – spiega Aresu – siamo di fronte al pieno dispiegarsi della completa strategia della via digitale della seta». La fibra parte dal Pakistan e, dopo vari punti d’approdo in Kenya, Gibuti ed Egitto, approda (passando per il Canale di Suez) a Marsiglia. «I vari landing point – dice sempre Aresu –, oltre alle infrastrutture tecnologiche strettamente legate al cavo, costituiscono gli avamposti che consentono alla Cina di avviare o consolidare le proprie attività commerciali, d’investimento ed eventualmente militari». «Basta pensare – riprende Amighini – a Gibuti. La città è diventata non solo un hub finanziario, infrastrutturale, energetico e commerciale di Pechino. Ma anche una sua importante base militare». A fronte di un simile contesto «si può ben dire che i confini del bipolarismo tra Usa e Cina sono, e saranno, definiti dal digitale. E sui confini il rischio di conflitti è molto alto».
Il Vecchio continente
Fin qui alcune considerazioni su strategie e dinamiche tra Usa e Cina. Quale, però, il ruolo dell’Europa? «Purtroppo – risponde Federico Protto, ad di Retelit, azienda presente nel consorzio del cavo AAe1 – rischiamo di non recitare alcuna parte da protagonisti». Certo, esistono attori rilevanti come «Nokia o la stessa Prysmian. Tuttavia nei cavi sottomarini tre sono i livelli. C’è chi costruisce e posa i cavi, chi li accende e gestisce e, infine, chi fornisce i flussi d’informazioni che ci passano dentro». Di questi il secondo e terzo livello «sono i più strategici. Ebbene: nel Vecchio continente, estremamente frammentato, non vedo in questi ultimi due ambiti soggetti realmente in grado di contrastare il passo di americani o cinesi».
In realtà altri sono i protagonisti sempre più presenti nel business. Si tratta dei giganti digitali americani. Amazon, Facebook, Google e Microsoft da un po’ di tempo hanno deciso, complice anche l’esplosione del cloud computing, d’investire direttamente nei “submarine cable”.
La “Grande G” ad esempio, che nel 2008 ha effettuato il primo “tuffo” nelle connessioni sotto il mare, via via ha aumentato il suo impegno (14 cavi, di 3 dei quali è addirittura singolo proprietario). Il gruppo di Zuckeberg e quello di Bezos, invece, sono presenti rispettivamente in 10 e 3 progetti (Microsoft in 4).
Potranno i big tech rappresentare una pattuglia di “incursori” che si inserisce nel conflitto tra Washington e Pechino? Gli esperti non sono così concordi. «Si tratta di programmi – dice Maffè – con motivazioni essenzialmente economico – commerciali». Vero, ma «di fronte al possibile stallo cui potrebbero andare incontro i cinesi – ribatte Protto – il loro peso aumenterà». Di certo, visto anche il rischio di break-up che corrono in patria, «proveranno a sfruttare il loro impegno nei cavi come arma negoziale con Washington», conclude Aresu.