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 2019  settembre 01 Domenica calendario

Intervista a Renato Zero

Alle otto del mattino le prime persone in fila: eppure mancano tredici ore all’appuntamento con Renato Zero alla festa del Fatto. Non importa. Dopo pochi minuti arriva una signora e con un gesto pratico e rodato, quasi da parcheggiatore, estrae un mazzetto di numeri e li distribuisce, “almeno non litighiamo”; speranza vana, alle cinque del pomeriggio, complice la tensione, la folla e il caldo, sfugge qualche parolone accompagnato da un gesto forte.
Tra i presenti c’è chi ha con sé i dischi degli anni Settanta per un autografo, chi i biglietti dei prossimi concerti della tournée Zero il Folle (dal primo novembre parte da Roma, mentre il 4 ottobre esce il nuovo disco d’inediti); chi una foto con il cantante, una maglietta, una rivista.
In migliaia, per lui.
In sottofondo il classico countdown scandisce l’attesa: “Cinque, quattro, tre, due, uno… Zeroooo!”.
E Zero alle nove sale sul palco della Versiliana accompagnato da Baratto, nella versione del 1979. “Qui ero a Starparade, programma di punta della televisione tedesca, e mentre cantavo l’ambulanza andava e tornava, andava e tornava, più andava e meno tornava, eppure i tedeschi avevano fama di essere tosti”.
Cosa accadeva?
Non so ancora se gli svenimenti erano per il caldo o per la presenza di quest’essere così provocatorio e dissacrante; fatto sta che non mi hanno mai più chiamato.
Gli abiti del tempo erano disegnati da te?
Sì, nella vita ho imparato a essere autosufficiente: sono il mio parrucchiere, la mia sarta, il mio truccatore…
Tutto…
È ciò che deve fare una persona saggia e prudente perché non si sa mai; una volta ho sognato di alzarmi la mattina come unico spettatore della vita, non c’era più alcun essere umano in giro, e ho pensato: “Ora che cazzo combino?”. Poi ho iniziato a cantare e si è ripopolato il mondo.
Vista l’esperienza con la tv tedesca, in Rai è andata meglio?
A Viale Mazzini ho partecipato a quattro provini, e allora, quando chiamavano, ti piazzavano in una stanza con davanti un vetro, un po’ come nei commissariati.
E…
Indagavano sulla tua natura, la tua esistenza, i vari perché e percome e ogni volta l’esito finale era: “Lei è fuori dalle righe” o “troppo ambiguo”, “a tratti disgustoso”; poi un bel giorno il presidente della Rai va in vacanza in Svizzera e allora il mio amico Gianni Ravera, forse mosso a compassione, mi chiama a casa: “Prepara la valigia, forse riesco a farti esibire in Rai”.
Perfetto.
Così assemblo il bagaglio (ci pensa), più che un bagaglio una cofana di vestiti; raggiungo Saint Vincent e il bravo Gianni mi spedisce sul palco tra i primi della serata, credo alle nove e mezzo e non appena inizio a cantare Il triangolo lo raggiunge una telefonata dalla Svizzera: era proprio il presidente che gli intimava di farmi scendere e di non presentarmi mai più.
Arrivederci.
E Gianni: “Se questa è la vostra volontà, lo spedisco a casa”. Passano sei minuti, e altra telefonata dalla Svizzera: “L’hai mandato a casa?”. “Un attimo, dategli il tempo di scendere”. E il presidente: “Nooo! Lascialo, e lo voglio in onda pure domani”.
(Secondo contributo video con proprio Il triangolo).
Ecco il pezzo dello “scandalo”.
Nella vita ho avuto un pregio e un difetto esasperante: ho letto gli eventi e i mutamenti con largo anticipo e alcune volte con soddisfazione; in altri casi questa dote mi è dispiaciuta perché indovinare un terno al Lotto può risultare divertente, ma quando i fatti si manifestano nella loro reale gravità, ho avvertito un po’ di risentimento verso il Renato Zero autore…
Però?
Per me questa professione va affrontata con sincerità, e non si può vendere fumo: se uno mente al pubblico allora mente anche a se stesso; è necessario non perdere mai rigore, passione e coerenza.
Regola fissa…
È necessario un approccio severo e per questo ho spesso messo da parte alcune canzoni, che successivamente sono andato a riascoltare…
Recuperate?
È successo con La favola mia; tutto ha i suoi tempi e le sue modalità e se si sbaglia il timing il brano viene ucciso.
Ai tempi di Triangolo Panatta racconta di essersi spaventato la prima volta che ti ha conosciuto: sembravi vestito come un marziano. 
(Ride) Adriano allora aveva paura pure delle lucertole; comunque ho tre sorelle e quando ai tempi si dovevano fidanzare, prima portavano i pretendenti a casa, e se resistevano a me, allora andavano bene.
Come è nata Il cielo?
La partecipazione paesaggistica, la collocazione della persona in un luogo ben preciso, determina la tipologia di quello che si scrive, non la qualità; il mare, ad esempio, su di me ha sempre esercitato un’influenza speciale, mi ha ispirato brani molto aperti e tra questi Il cielo, scritto quando avevo tra i 17 e i 18 anni e frequentavo Ventotene, un’isola che ha la forza di spettinarti dalla mattina alla sera. Venir spazzolati dal vento significa anche mandare in caciara le idee, mescolarle, accenderle, renderle vive; talmente vive da poter comporre Il cielo a quell’età, e lo dico oggi che ho 69 anni.
Anche Il cielo lo hai tenuto in stand by per molti anni?
Non ricevevo ancora il beneplacito della discografia: forse ritenevano che non avevo il diritto a un trattamento d’artista.
(Contributo con Ciao Nì, al Teatro Tenda di Roma).
È fine Settanta.
Un’esperienza di due anni e mezzo-tre, insieme a Gigi Proietti e Vittorio Gassman; tra di noi si era creata una sorta di sana complicità su quanto pubblico ognuno riusciva a coinvolgere.
Invece come nasce L’ammucchiata?
Avevo un’amica di origine statunitense che, appena arrivava un gruppo dall’estero, lo portava a casa e lo rallegrava; io ero amico anche del fratello: un giorno salgo da lei per salutarla e, mentre la cerco, inciampo prima in un braccio, poi in una gamba (sorride), ed è nata L’ammucchiata. Tempi bizzarri; poi avevo un padre poliziotto, e quando mi trovavo in situazioni un po’ scabrose…
Tipo?
Una volta dal Piper mi accompagnano a casa due amici e nel tragitto si preparano un cannone gigante con sopra l’olio indiano. Miscela esplosiva. E loro: “Vuoi?”. “No, grazie”. Però l’abitacolo era quello, e quando sono sceso e rientrato dai miei, il letto mi risucchiava; spaventato chiamo Mimì (Mia Martini): “Qualcosa non va, ho respirato il cannone, e ora ne pago le conseguenze”. E lei: “A Renatì, dormi e facce dormì pure a noi”.
Perfetto…
Così riprovo, ma il letto nuovamente mi risucchiava, allora chiamo mio padre e gli spiego la situazione. “Me vesto e annamo”. Mi porta in ospedale, e lì mi danno 12 gocce di Sympatol.
Tuo padre è stato spesso preso in giro dai colleghi per un figlio come Renato Zero.
Sì, meschini; papà ottenne un alloggio dove vivevano altri 136 poliziotti, e quando uscivo da lì erano lastre quotidiane (cambia tono). Ovunque siete, “stronzi!”.
Tuo padre acquistava i biglietti dei concerti.
Sempre, voleva dimostrarmi la sua gioia e l’orgoglio.
Gli hai mai raccontato come hai evitato il militare?
Fu lui ad accompagnarmi, ma non sapeva della biancheria.
Cioé?
Un filo interdentale dietro e davanti un triangolino color fucsia.
(Video de La favola mia).
Il tuo pubblico non canta, ma vive le canzoni.
Conoscono il senso vero delle parole contenute nei brani.
Prima della partecipazione a Sanremo, avevi dichiarato di volerti ritirare. Cosa era successo?
Una serie di situazioni anche più grandi di me, come la tragedia al Castello Sforzesco di Milano, quando è crollato il ponte con sopra un gruppo di ragazzi, e lì è morta Tiziana Canesi, il cui unico torto era di essere mia fan. Il giorno dopo sui giornali sono usciti titoli come “Renato Zero canta e Tiziana Canesi muore”, quando era uno spettacolo della Rai con 36 artisti coinvolti; dei presenti nessuno sapeva della tragedia.
D’Agostino narra di un incidente in auto con te.
Confermo, eravamo in tre su una Fiat 500: io seduto dietro; a un certo punto passiamo un incrocio e una macchina ci travolge, la nostra auto si ribalta più volte e si ferma su un fianco. Quando riesco a uscire mi trovo davanti l’insegna delle pompe funebri. Non solo. Mi portano in ospedale con la testa rotta, e lì dentro sento Roberto gridare: “Ma che sete matti? Quello è mi’ fratello, non lo potete mette’ nel reparto delle donne!”.
Come eri vestito?
Porelli, non era colpa loro: oltre all’abbigliamento nel periodo avevo pure la chioma leonina.
(Sullo schermo appare un duetto con Dalla).
Lucio, Mimì, Califano, Battiato: chi aggiungeresti al tuo pantheon?
Per fortuna ho vissuto una trasversalità molto significativa e singolare: nel 1954 i fratelli di mio padre ci regalarono un televisore americano, un Admiral in legno, e tutto il giorno emetteva un suono strano, friggeva dalla mattina alla sera, poi ogni tanto quel rumore spariva e appariva una signorina: “Prove tecniche di trasmissione”. Poi con il passare del tempo apparvero Dario Fo, Aroldo Tieri, Gilberto Govi, Eduardo De Filippo, Cesco Baseggio: io vengo fuori con le immagini di queste persone; artisti che anni dopo sono diventati amici.
Un sogno…
La ricompensa per questa scelta di vita è stata quella di aver accarezzato il volto di Lucio Dalla, aver stretto la mano a Lucio Battisti, aver provato amore per Mimì, un amore intramontabile e vero; o di aver raccontato barzellette con Rino Gaetano.
E la Ferri?
Gabriella, una grande.
È vero che Il carrozzone era stato composto per lei?
A quel tempo lavoravo spesso con Piero Pintucci, e un giorno mi ferma: “Ti va di sentire questo brano? Gabriella non lo vuole”. Lo ascolto e mi pietrifico: “Piero, vengo io da Gabriella e le dico che è perfetto”. Macché. Quando lo canto c’è dentro lei, la penso.
Rino Gaetano…
È una delle toppe della mia vita, non avevo compreso il suo stato d’animo, il suo dolore; è in quel gruppo di artisti come Chaplin ed Eduardo che hanno fatto sorridere il mondo ma non hanno convinto loro stessi con quella risata. Rino era una persona meravigliosa.
Sei mai andato dallo psicologo?
I lettini li adoro quando sono appetitosi.
Palestra?
No, però gioco a scopone, ho i polpastrelli abilitati. (È il momento de I migliori anni e il pubblico si alza in piedi in un’ovazione). Oggi festeggiamo Zero, che in fondo mi ha tolto dai tabù, dai complessi, dal dover sposare Dio a tutti i costi, quando poi ho imparato ad amarlo a modo mio; grazie a Zero sono diventato rivoluzionario per vocazione e non per mestiere
Non hai mai studiato musica.
No, e a un certo punto è nato il desiderio di scrivere, però poi ho concluso due conti: se ho già realizzato tanto, e senza il brevetto del conservatorio, probabilmente se ci fossi andato avrei potuto perdere spontaneità e istinto.
Con quale strumento componi?
A volte uso un registratore e certi spunti li canto pure se sono al supermercato; mentre per i testi do sempre precedenza alla musica e poi, con serenità, sono le note stesse a suggerirmi il percorso letterario; spesso gli spunti arrivano dal marciapiede, dall’ascolto della vita, per questo il pubblico ci si riconosce.
Negli altri casi?
Sono storie mie, e nel prossimo disco c’è una traccia, la tredicesima, che se avete amato Il cielo questa volta è “l’universo”, un brano meraviglioso perché c’è Renato che accarezza Zero.
(Dagli altoparlanti partono le note proprio de “Il cielo”, e il pubblico inizia a invocare, non a cantare: c’è chi piange, chi ride, chi solleva in aria i propri figli, chi cerca un contatto, chi balla “quanti amori conquistano il cielo, perle d’oro nell’immensità, qualcuna cadrà, qualcuna invece il tempo vincerà, finché avrà abbastanza stelle il cielo”).