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 2019  settembre 01 Domenica calendario

Il menu di d’Annunzio al ristorante

Per chi considerasse il mangiare un nutrimento prima per l’anima che per le budella, il Menu d’Annunzio, delle Rose di Salò, è di certo una grande occasione. Portando magari anche i figli, per aiutarli a digerire anche quelle Cento e cento e cento e cento pagine del Libro segreto di Gabriele d’Annunzio tentato di morire che la scuola rende loro così indigeste.
Senz’altro un modo originale e piuttosto divertente per scoprire che bel tipo fosse quel poeta-soldato, non a caso l’Imaginifico: uno capace di resistere a tutto, fuorché alle sue tentazioni. Di donne e avventure guerresche già si sapeva, soprattutto in questi giorni di centenario di quella straordinaria avventura dei corpi e delle menti che fu l’impresa di Fiume. Ma non delle uova, di cui D’Annunzio andava talmente ghiotto, da riuscire mangiarne con vorace appetito paragonabile a quello sessuale, addirittura 24 in una sola giornata. Uova capaci di provocare in lui una «estasi divina», come si può ben capire dalla perfetta riproduzione che vi poseranno a tavola con l’ordine inviato dal Vate «Alla Sacra Cucina 3 agosto: ore 14.30!». Un’ora tarda, forse dovuta alla solita nottata tempestosa, dopo la quale passa a ordinare le sue pietanze preferite. «Tre uova al tegamino. Mezza oncia di formaggio. Una pesca. Una preghiera». Sì, una preghiera. «In camera. Il Priore», come amava appellarsi. Con tanto di destinatario e mittente («Al genio di Albina, il secondo Genio» però questo maiuscolo, cioè lui, che amava cotolette ben battute e frittate). «Se la fame e la sete sono gli impulsi primitivi ed essenziali nell’uomo, nella bestia – scriveva in un appunto – l’associare tali impulsi a valori estetici è un servire la causa della cultura ben più efficacemente che le noiose e oziose dissertazioni morali e filosofiche».
Lei è la cuoca, la fedelissima Albina Lucarelli Becevello, ribattezzata Suor Intingola, forse l’unica donna con cui visse in assoluta armonia e soprattutto castità dagli anni di Venezia a quelli del Vittoriale di Gardone Riviera, il suo regno che sorge proprio qui a due passi e che con il motto «io sono ciò che ho donato» regalò a quell’Italia che forse così poco lo ha meritato. Un trionfo barocco anche il frontespizio di quello che in fondo era solo l’ordine di tre uova e un pezzo di formaggio, ma che con la sua cura maniacale dell’estetica di ogni più piccolo gesto, diventa il gioiello di un orafo della parola e dell’immaginazione. «Liber dispendii. Libro della spesa. Ardens avaritia. Crepi l’avarizia!».
Ecco, è da qui che due chef, i giovanissimi Marco Cozza e Andrea De Carli (anagrafe ’91, ma spalle rese robuste all’Albereta del maestro Gualtiero Marchesi e al Cambio di Matteo Baronetto, a Torino), dopo aver rilevato l’Antica Trattoria alle Rose, trasformandola in Rose, l’hanno reinventata luogo di grande sperimentazione culinaria e anche culturale insieme al pastry chef Francesco Di Maggio, Elisa Zanelli chef de partie e Sandra Sanna maître di sala e sommelier. Dopo avere bussato alla Fondazione Vittoriale degli italiani presieduta da Giordano Bruno Guerri, si sono fatti mostrare dal capo degli archivi Alessandro Antonacci i manoscritti con cui veniva ordinato il mangiare. Da lì un menu che parte con il delizioso Oleum Vatis, prodotto in 1.600 bottiglie proprio dalla Fondazione. La bottiglia è, a sorpresa, un profumatissimo Cannonau di Sardegna che si scopre D’Annunzio amasse sopra ogni altro vino. Qui si comincia con uno straordinario Nepente, doc raccolto a mano tra Oliena e Orgosolo dalla cantina Nois di Antonio Puddu, nella filosofia della caccia al piccolo produttore e alla materia prima di qualità. Poi via al menu ispirato alle tre uova, scandite nelle diverse portate, come il Finto tuorlo aspirato per farne uno zabaione con olio aromatizato all’arancia e pasta di acciughe. Poi la minestra che D’Annunzio amava «calda, ma senza brodo» e l’albume cotto al tegamino con falde di cipolla cotta in agrodolce e ditalini di pesto di nocciole, tuorlo marinato in sale, zucchero e lenticchie. Arriva il Vostè (il «voi» che in Sardegna i figli davano al padre fino a qualche anno fa), Nepente di Oliena per il filetto di vitello cotto sotto vuoto brodo come dashi di carne in gelatina. Incalza l’uovo al tegamino marinato in carpione, erba castalda salsa di carne e succo di limone. Il formaggio richiesto nella missiva alla Sacra cucina era il preferito dal Vate, quel Bagòss prodotto con il latte crudo di vacca bruno-alpina che D’Annunzio ordinava ad Albina di portargli da Bagolino. Qui è servito con spuma di zafferano stagionato per dargli sapore intenso e acido e un estratto di pere per aggiungere dolcezza. «Una pesca», da Rose diventa la Persicata, il tipico dolce del Lago di Garda confezionato con pesche di Bussolengo: gelatina di pesca con mela rossa, estratto di pesca. E un filo dell’Oleum Vatis con cui era cominciata la cena (menu a 60 euro, via Gasparo da Salò 33, tel 0365-43220). Il liquore è di timo e bete, la «preghiera» con cui si chiudeva la nota, qui diventa un biscotto prezioso con cui si conclude il viaggio della mente. 
E per chi non amasse D’Annunzio, c’è un ardito (tanto per restare in tema) menu Herbario: gastropercorsi con erbe del luogo come acetosella, levistico, angelica o silene. Ma questa è tutta un’altra (bella) storia.