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 2019  settembre 01 Domenica calendario

Carceri raddoppiate le aggressioni ai secondini

Un detenuto ubriaco si rifiuta di tornare in cella. Due maghrebini danno fuoco a un materasso per attirare l’attenzione. Un altro ancora si pratica un taglio e comincia a sanguinare. Le occasioni di conflitto fra le mura delle carceri italiane sono innumerevoli, ma il punto terminale delle tensioni sono quasi sempre gli agenti di polizia penitenziaria che devono intervenire a risolvere il problema. Il risultato è che non passa giorno senza che il personale in divisa venga aggredito. Secondo la stima del sindacato di categoria UilPa, gli episodi quotidiani in media sarebbero un paio, un numero in linea con l’escalation degli ultimi sei anni: dalle 387 aggressioni del 2014 siamo infatti passati alle 681 dell’anno scorso (dati ufficiali del ministero della Giustizia, ndr), quasi il doppio, e per il 2019 ci si prepara a superare abbondantemente quota 700.
Ma cosa sta succedendo negli istituti penitenziari della penisola? Per l’UilPa le cause del malessere sono più d’una, ma fra i motivi principali ci sarebbe «il cambiamento della gestione detentiva che ha portato ad allargare le maglie dei controlli, senza incrementare in maniera adeguata il personale e gli strumenti di sorveglianza tecnologica», come spiega il responsabile nazionale del sindacato, Gennarino De Fazio. Sotto questo profilo, tutto è cominciato con la "sentenza Torreggiani" della Corte europea dei diritti dell’uomo che, nel 2013, obbligò l’Italia a correre ai ripari contro il disastroso sovraffollamento delle carceri (il caso riguardava sette persone detenute per molti mesi in celle triple a Busto Arsizio, con meno di quattro metri quadri a testa a disposizione, ndr). 
Un trattamento "inumano e degradante" che, secondo De Fazio, venne risolto così: «Per aggirare il problema si sono aperte le celle per almeno 4 ore al giorno, facendo vagare i detenuti nei corridoi e nelle salette all’interno dei reparti, lasciandoli però a oziare. Quando si verificano risse fra di loro, con un solo agente che spesso presidia più reparti, cominciano i problemi». La dotazione di poliziotti non aiuta: «Gli agenti sono 36mila, 4mila in meno rispetto ai 40mila previsti dal decreto attuativo del 2017, ma in realtà il fabbisogno vero sarebbe di 50mila unità», dice il sindacalista. Poi ci sono altri elementi: «Al regime di "custodia aperta" accedono tutti i detenuti, non i più meritevoli. D’altra parte, non vengono inflitte sanzioni disciplinari ai soggetti violenti, perché nelle nostre carceri ci sono poche sezioni a regime chiuso, cioè con la cella chiusa. Spesso il detenuto che compie atti violenti non subisce conseguenze».
Antigone, l’associazione che difende i diritti dei carcerati, dà una lettura diversa del fenomeno aggressioni: «La questione non va sottostimata, ma va tenuto conto che il numero dei detenuti è passato dai 53.623 del 2014 ai 60.280 attuali – dice il presidente, Patrizio Gonnella -. In questi anni sono aumentati anche suicidi e autolesionismi, ma sappiamo che in un carcere che funziona e dove la situazione è più serena ci sono anche meno aggressioni». Antigone osserva la restrizione nell’accesso alle misure alternative, sottolinea l’aumento dei detenuti a fronte della riduzione dei reati, ma soprattutto nega che la "custodia aperta" sia all’origine della maggior violenza contro gli agenti: «Quando mancano gli spazi, deve essere garantita almeno più vita sociale: abbiamo visitato una quarantina di carceri, nel 44% dei casi solo alcune celle vengono aperte, nel 31% non si muove nessuno se non accompagnato. Non c’è legame diretto fra custodia aperta e atti aggressivi, ma certo non è sufficiente aprire le celle, occorre dare un senso al tempo che scorre, con attività da far svolgere al detenuto».
Celle aperte o no, per l’ UilPa ad aumentare le situazioni a rischio contribuisce la messa al bando degli Ospedali psichiatrici giudiziari: «Una soluzione non supportata da misure alternative adeguate, perché le Rems (le strutture dove devono essere ospitati i condannati con disturbi mentali e socialmente pericolosi, ndr) sono poche e con pochi posti – sostiene De Fazio -. Se oggi viene arrestata una persona con problemi mentali, come l’uomo che di recente a Cagliari ha ucciso la madre perché credeva che fosse il demonio, spesso finisce in carcere, dove, nelle sezioni psichiatriche, il medico è presente solo qualche ora al giorno. E con lui restano gli agenti».