la Repubblica, 1 settembre 2019
Nuovi dazi Usa sulle merci cinesi
VANITYX
NEW YORK – Scatta oggi una nuova raffica di dazi al 15% imposti da Donald Trump su importazioni cinesi per un valore annuo di 112 miliardi. Sono colpiti prodotti made in China che appartengono a un ventaglio ampio: dall’elettronica (tv o smartwatch) alle scarpe e articoli sportivi, dai pannolini ad alcuni generi alimentari come carni e latticini. E come di consueto da due anni a questa parte si alzano grida di allarme per l’impatto che queste tasse doganali avranno sul costo della vita negli Stati Uniti. È un allarme che più volte in passato si è rivelato infondato: l’inflazione Usa rimane stabilmente al di sotto del 2%, ragion per cui la Federal Reserve con ogni probabilità taglierà di nuovo i tassi d’interesse nella sua riunione del 18 settembre. Ma gli avversari del protezionismo trumpiano, pur smentiti in passato, sottolineano che questa volta è diverso. È la prima volta – sostengono – che i dazi vanno a colpire così pesantemente delle importazioni destinate al consumatore finale. Le tasse protezioniste varate nelle puntate precedenti dello scontro Usa-Cina avevano colpito importazioni “made in China” per un valore superiore, pari a 250 miliardi di dollari annui, ma si trattava prevalentemente di prodotti destinati all’industria, come ad esempio l’acciaio e l’alluminio. Con i nuovi dazi in vigore da oggi, la quota di prodotti tassati che sono destinati al cliente finale balza dal 30% al 70%. Se poi dovesse scattare anche l’ultima tranche dei dazi minacciati da Trump, il 15 dicembre, allora il 99% dei beni al consumo provenienti dalla Cina finirà per essere sottoposto a qualche forma d’imposizione. La pressione fiscale- doganale media sui beni importati dalla Cina passerà dal 3% nel 2017 al 24%. Il che significherebbe “pareggiare” – quasi – il livello dei dazi che erano praticati da Pechino sui beni “made in Usa”, molto prima che iniziasse il braccio di ferro tra i due governi. L’allarme-inflazione andrà verificato perché l’argomentazione che lo sorregge non è del tutto convincente. Anche se i dazi precedenti colpivano prevalentemente prodotti destinati all’industria, c’erano nella lista anche beni al consumo e tuttavia lo shock inflazionistico non c’è stato. Inoltre in teoria anche un aumento del costo di materie prime o semilavorati come l’acciaio doveva ripercuotersi sull’acquirente finale dei prodotti che usano quelle materie prime: non è successo. La spiegazione è che le politiche di prezzo vengono decise sulla base dei rapporti di forze. Se l’importatore americano ci riesce, impone al fornitore cinese di abbassare i prezzi per assorbire i dazi. Qualora il fornitore cinese abbia una potere contrattuale superiore, ci sono altri anelli nella catena che possono essere penalizzati: le aziende americane che importano posso rinunciare a una parte del margine di profitto. Oppure può essere la grande distribuzione a sacrificare i propri margini. Ci sono numerose varianti e combinazioni prima di arrivare a scaricare l’impatto sul cliente finale: il quale può anche decidere di soprassedere agli acquisti, di ridurli, o di cercare pr odotti alternativi. La ricerca di alternative avviene anche a monte. Diverse multinazionali Usa stanno cercando di rilocalizzare le fabbriche dalla Cina al Vietnam, al Bangladesh, alla Cambogia, e altri paesi non colpiti dai dazi.