Corriere della Sera, 1 settembre 2019
Trump e l’acquisto della Groenlandia
Quando Donald Trump ha annunciato che voleva comperare la Groenlandia, ci siamo chiesti quali fossero le ragioni di questa ennesima pretesa del presidente americano. Interessi strategici? No. Nella Groenlandia settentrionale esistono già due installazioni militari americane: un aeroporto chiamato Thule (dal nome latino di una terra leggendaria all’estremo limite settentrionale del mondo), e una base nucleare costruita nel 1959, oggi interamente ricoperta dai ghiacci. La base serviva alla sperimentazione di missili nucleari e il grande disgelo dei prossimi anni potrebbe riportare alla luce gli avanzi di un minaccioso arsenale.
Interessi economici? Forse. Il disgelo renderà possibile lo sfruttamento di tutte le ricchezze sepolte dell’Artico: petrolio, gas, minerali preziosi; e questo è uno dei motivi per cui il progressivo arretramento dei ghiacciai è considerato in alcuni ambienti un’occasione da cogliere piuttosto che una minaccia incombente sulla sorte del pianeta. Ma Washington potrebbe firmare accordi per lo sfruttamento congiunto delle ricchezze artiche con le autorità autonome della Groenlandia e con quelle della Danimarca, a cui questa enorme isola (la più grande del mondo) appartiene. Il vero motivo è probabilmente un altro. Trump vuole passare alla storia come uno dei presidenti americani che hanno esteso il territorio degli Stati Uniti, spesso con il pagamento di una somma di denaro. La prima compravendita territoriale fu quella con la Francia che si concluse il 30 aprile 1803 con l’acquisto di 828.000 miglia quadrate fra il fiume Mississippi e le Montagne Rocciose: una grande regione che era stata battezzata un secolo prima con il nome di Luisiana. La somma pagata fu 80 milioni di franchi e permise allo Stato americano di aggiungere 13 stelle alla sua bandiera (Missouri, Nebraska, Iowa, Arkansas, Nord e Sud Dakota, una buona parte della attuale Louisiana, Kansas, Minnesota, Montana, Wyoming, qualche pezzo di Colorado e Oklahoma).
La seconda compravendita, nel 1819, fu con la Spagna per una parte della Florida e costò agli Stati Uniti soltanto 5 milioni di dollari. La terza fu con il Messico per un pezzo di terra (29.644 miglia quadrate) che costò 15 milioni di dollari e permise agli Stati Uniti di completare la ferrovia del Pacifico meridionale. La quarta infine, nel 1867, fu con la Russia per l’Alaska: 586.400 metri quadrati di terra e ghiaccio nel lontano Nord-Ovest dell’America settentrionale. Il Paese era stato percorso da esploratori russi e aggiunto alle terre possedute dallo zar durante la grande estensione dell’Impero. Ma a Pietroburgo dovettero credere che l’Alaska fosse un impiccio piuttosto che un vantaggio e se ne sbarazzarono per poco più di 7 milioni di dollari, vale a dire 2 centesimi per acro (la misura inglese che corrisponde a 4.046,7 mq). L’oro e il petrolio verranno scoperti più tardi.
Alla vigilia delle elezioni per il rinnovo del suo mandato Trump voleva aggiungere un altro gioiello alla corona imperiale del suo Paese e un titolo di merito alla sua persona. La piccola Danimarca gli ha detto che non si vive di solo denaro.