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 2019  agosto 31 Sabato calendario

Intervista con Ian McEwan

VANITYX
CLAMOROSIX

Pecore. Mucche. Cavalli. Fattorie, campi di grano e dolci colline. Un villaggio di 400 anime, con un pub del 1865 e una chiesetta del Medioevo. Il proverbiale countryside inglese. Per la precisione, i Cotswolds, l’equivalente per Londra degli Hamptons per New York: il posto in cui gli abitanti della capitale, se possono, hanno la “seconda casa” o a un certo punto si trasferiscono per un’esistenza più bucolica e tranquilla. Arrivarci in un pomeriggio inondato di sole per parlare con Ian McEwan di un romanzo fantascientifico che ha per protagonista un robot, Macchine come noi, pubblicato in Italia da Einaudi (l’autore lo presenterà al Festivaletteratura di Mantova), fa una strana impressione: la grande casa di pietra circondata di boschi in cui ora vive lo scrittore sembra lontana anni luce dal mondo degli androidi. Eppure, un ritratto di Darwin appeso davanti a una delle due scrivanie dello studio, quella su cui McEwan lavora al computer ( sull’altra, più piccola, verga la prima stesura a mano), suggerisce un’armonia tra il circostante panorama agreste e la fantasia futuristica del suo nuovo libro: in fondo, come nel prologo di 2001: Odissea nello spazio, sono soltanto due fasi dell’evoluzione della specie. Lei era un “city boy”, un ragazzo di città, anzi di una delle più grandi città della terra: come si sente in campagna? «In realtà sono cresciuto in Estremo Oriente e in Nord Africa, seguendo mio padre, militare di carriera, e poi a 12 anni i genitori mi hanno spedito in una boarding school del Suffolk, cui ha fatto seguito l’università nel Sussex, perciò fino alla laurea non avevo grande familiarità con Londra. Ma a quel punto mi ci sono trasferito ed è diventata la mia città, fino a sette anni or sono quando ho venduto la casa che avevo a Fitzrovia (il quartiere londinese di fianco vicino al British Museum, ndr) e sono venuto qui». Era stanco di Londra? «Di Londra non ci si può stancare, a meno di essere stanchi della vita stessa, come afferma la celebre frase. Ma suppongo che il trasferimento sia stato un inconscio preparativo per un ultimo atto, per una vita più contemplativa. Sebbene non in solitudine: scopri che un sacco di gente è felice di venire a trovarti, se hai una grande casa in campagna, inclusi figli e nipoti. Questi ultimi, in particolare, ora che ho 71 anni, diventano più importanti». Scrive meglio, nella quiete e nel silenzio? «Non ci sono le sirene di ambulanze, polizia e pompieri, che attraversano senza sosta Londra. E non suona quasi mai il telefono. Ma questo non dipende da dove vivi. Negli anni Settanta, il telefono suonava di continuo. Ora non più, comunichiamo con email, messaggini e Whatsapp. Ritirarsi in campagna, del resto, oggi non significa più isolarsi: internet ci tiene collegati no stop con tutti e con tutto». Le manca Londra? «Ci vado spesso, è a un’ora e mezzo di treno e con mia moglie vi abbiamo tenuto un piccolo punto d’appoggio. Il mio amore per Londra è immutato. Com’è noto, ho votato contro la Brexit, e ritengo che Londra, pur con tutti i suoi problemi, sia uno dei migliori esempi di diversità razziale sul pianeta, dove gente di ogni lingua, cultura e religione convive relativamente bene». Entrare nella casa di uno scrittore è sempre interessante. Ma è anche un’intrusione. Provando ad abbattere il corrispettivo della quarta parete televisiva, posso chiederle se le fa piacere accogliere un giornalista? «Lo faccio molto raramente. E solo con i giornalisti del continente. I giornali inglesi sono poco rispettosi della privacy». Per restare in argomento, si annoia a promuovere i suoi libri con interviste, presentazioni, dibattiti? «Se lo faccio troppo, comincio a detestarmi. Scrivere libri e parlare dei libri che uno scrive sono due attività contrastanti. Ma talvolta andare in giro a presentare libri e incontrare lettori è divertente». Era meglio nell’Ottocento, da questo punto di vista? «Non necessariamente. Victor Hugo e Charles Dickens sono stati probabilmente gli inventori del marketing della letteratura. Nel Novecento ci fu una fase, in particolare per alcuni autori, in cui l’esposizione ai lettori era vicina a zero: penso a T.S. Eliot, Samuel Beckett, James Joyce. Altri, come Hemingway, non si sottraevano a una certa dose di pubblicità. Ma è innegabile che festival e incontri letterari si siano moltiplicati. Il fenomeno ha duplici conseguenze». Una è che gli scrittori passano più tempo a pubblicizzare i libri e meno a svolgere un ruolo pubblico? È in declino la figura dell’intellettuale impegnato? «Ci sono scrittori che conducono una vita molto ritirata e per conto mio devono essere liberi di farlo. Viceversa, quando sono stato in Israele, tutti gli scrittori e gli intellettuali che ho conosciuto non facevano altro che parlare del conflitto israeliano-palestinese: anzi della “situazione”, come lo definivano senza bisogno di specificare. Ammiro Bernard Henri-Levy che è praticamente impegnato su ogni causa da una vita. E in Gran Bretagna ci sono scrittori come Jonathan Coe, John Lanchester, James Meek, un po’ tutto il gruppo legato alla London Review of Books, che conducono importanti campagne politiche. Io sono meno politicizzato, non milito in alcun partito, non penso che uno scrittore debba sempre cercare di incidere sulla realtà». Sulla Brexit, tuttavia, una sua battuta passerà alla storia: «Basta aspettare che i vecchi muoiano e un secondo referendum avrà un risultato diverso dal primo». «Sa come mi è venuta in mente? Mia moglie fa da sempre volontariato in un ospizio. Quando la Gran Bretagna abbandonò il sistema imperiale per introdurre il sistema metrico decimale, gli anziani ospiti si lamentavano con lei dicendo:” Non potevano aspettare che morissimo, per cambiare sistema?”. Quando la Gran Bretagna introdusse il sistema metrico decimale, gli anziani si lamentavano: “Non potevano aspettare che morissimo, per cambiare?” Questo atteggiamento mentale è lo stesso della Brexit
Ecco, la Brexit è un’alleanza inconsapevole tra anziani che volevano indietro il mondo di una volta e ceti impoveriti dall’austerità. Nessuno è riuscito a convincerli, purtroppo, che è stato il governo conservatore a impoverirli, non la Ue». Se uno scrittore non incide sulla realtà, può cercare di alterarla: come lei ha fatto in “Macchine come me”. Lo definirebbe un libro di fantascienza o fantapolitica? «Ammetto che il titolo è ispirato da un libro di Asimov. E che, da giovane, i miei primi romanzi flirtavano con la fantascienza. Ma non è un genere che prediligo. Il motivo è che non amo fare previsioni. Mi pare un esercizio futile, perlomeno per la narrativa: nella vita tutto è imprevedibile, figuriamoci il futuro dell’umanità». Allora ha preferito prevedere il passato. «Cosa sarebbe accaduto se la Gran Bretagna avesse perso la guerra delle Falkland? Se Margaret Thatcher fosse stata sconfitta dal laburista euroscettico Tony Benn alle elezioni successive? E se ci fosse stato lui, nell’albergo dove l’Ira organizzò un attentato? Ho immaginato tutto questo per dimostrare come il presente che stiamo vivendo non sia l’unico possibile. E che le grandi svolte spesso sono conseguenza di piccole coincidenze, non di una logica ineluttabile. Basta cambiare un tassello e la Storia avrebbe preso un altro corso». La variante del passato più importante del romanzo, tuttavia, ha a che fare con la scienza, non con la politica. «Mi ero occupato, per un documentario, di Alan Turing, il grande scienziato inglese che decrittò il Codice Enigma dei nazisti dando un contributo decisivo alla vittoria degli Alleati nella Seconda guerra mondiale e poi mise le basi dell’informatica. Negli anni Cinquanta Turing prevedeva che entro breve avremmo avuto macchine intelligenti. Invece non accadde. Turing fu processato per omosessualità, che allora era un reato, condannato alla castrazione chimica e si suicidò. Ebbene, nel mio romanzo non viene processato, non si toglie la vita, crea il primo computer e nel 1982 l’Inghilterra ha i primi robot, le prime macchine intelligenti del tutto simili a noi». Se non fosse crollato l’Impero Romano, forse l’Europa avrebbe avuto il Rinascimento nell’anno Mille e le macchine volanti di Leonardo sarebbero diventate realtà nel Dodicesimo secolo… «C’è un’ampia letteratura sulla Storia fatta con i “se”. Che possono disegnare anche scenari regressivi: uno tipico è “se Hitler fosse riuscito a invadere il Regno Unito”. Gli inglesi ne vanno pazzi». Il robot al centro di “Macchine come me” si chiama Adam: come il primo uomo della Bibbia. Ma pur essendo assai più intelligente degli uomini, qualcosa lo differenzia. «In testa al libro ho messo un’epigrafe di Kipling: gli uomini non sono fatti per distinguere la verità dalla menzogna. Ovvero non sempre capiscono se la persona che hanno di fronte racconta balle. Un robot potenzialmente sì. E questo potrebbe sembrare un progresso. Ma come sarebbero le relazioni umane se tutti sapessimo, tutto il tempo, cosa pensa la persona che abbiamo davanti? Credo che non resterebbe in piedi alcun matrimonio». Fellini sosteneva che sarebbe bello un mondo in cui si può dire la verità a tutti senza fare del male a nessuno: poiché ciò non è possibile, è necessario mentire. «Il mio non è un elogio della menzogna. Ma ci sono menzogne che effettivamente si dicono a fin di bene: capita a chiunque di avere un familiare o un amico gravemente malato, che non vuole sapere che gli resta poco da vivere. E in assoluto non credo che un mondo perfetto, in cui sappiamo tutto, sarebbe più felice di quello attuale, in cui ci accontentiamo di cercare di capire, procedendo nel buio, fra sprazzi di luce». Il robot Adam afferma che, in un mondo perfetto dominato dalle macchine, non ci sarebbe più bisogno di romanzi. «Lo faccio dire a lui, ma non sono d’accordo: perché non credo che il mondo sia davvero perfettibile. Dei romanzi ci sarà sempre bisogno, per aiutarci a capire chi siamo. È vero però che molta poesia trae ispirazione dalla sofferenza. Per tacere delle canzoni d’amore: nessuno ne ha mai scritte sui matrimoni felici». Come scrive Tolstoj nel famoso incipit di “Anna Karenina” su tutte le famiglie felici che sono simili tra loro, mentre ogni famiglia infelice è infelice a modo suo. «Anche se poi, proprio in quel capolavoro, Tolstoj è l’unico scrittore che io conosca a riuscire a descrivere per cento pagine un matrimonio felice e perfetto, senza annoiare». In conclusione, l’uomo non verrà sostituito dalle macchine, secondo lei? «Chissà: Elon Musk sta già facendo esperimenti per collegare un computer a topi e scimmie, forse un giorno si potrà fare anche con gli esseri umani e con un clic del mouse scaricheremo in un istante l’intero sapere universale nel nostro cervellino di uomini. Più modestamente, con questo libro sottolineo che l’uomo si annoia in fretta di ogni nuova invenzione. Già adesso non ci meravigliamo di parlare con Alexa di Amazon per fare la spesa, un domani sbadiglieremo davanti al nostro assistente robot». Come il marziano a Roma di Ennio Flaiano, che all’inizio sembra un Messia ma ben presto viene preso a pernacchie. «Kafka dice la stessa cosa in uno splendido racconto in cui arriva un circo con un uomo chiuso in gabbia che riesce a vivere senza mangiare: tutti sono curiosi di vederlo, finché il circo non si procura una pantera e nessuno è più interessato all’uomo che digiuna». Il robot Adam ha bisogno di ricaricare le batterie, dopo trent’anni. Ma il romanzo suggerisce che le macchine hanno un vantaggio sugli umani: possono vivere per sempre. «Non nascondo che di questo ho una certa invidia. Mi piacerebbe sapere come andrà a finire il Ventunesimo secolo: scoprire se sopravvivremo alla minaccia del cambiamento climatico e di una possibile guerra nucleare. È seccante pensare che un giorno il mondo andrà avanti senza di me. Non pretenderei l’eterna giovinezza: mi basterebbe l’eterna vecchiaia. Vorrei fermarmi così come sono e vivere almeno altri diecimila anni. A 71 anni, in fondo, me la cavo ancora a tennis».