La Stampa, 31 agosto 2019
Intervista a Vittorino Andreoli
Non fa i nomi, ma ha un elenco di capi di Stato e ministri che porterebbe subito in clinica. Vittorino Andreoli si sforza di essere politically correct e prepara la terapia per la società che ha rinunciato alla fantasia. Per i millennial nati e cresciuti nel mondo dei video e per gli adulti che hanno perso il gusto del dubbio. I casi più gravi e più urgenti, secondo il professore veronese, possono lasciare stupiti quelli che sottovalutano i cortocircuiti della mente: la caccia ossessiva della felicità, la dipendenza tecnologica e il ragionamento sempre più incentrato sul «mi piace o non mi piace».
Vittorino Andreoli ha curato serial killer, delinquenti incalliti e persone con problemi psichiatrici a cui nessuno aveva indicato la strada. E ci è riuscito, spesso usando l’arma semplice dell’immaginazione. A quasi 80 anni ha avuto l’ambizione di scrivere un libro, l’ennesimo, e di intitolarlo Il futuro del mondo. Non è un elenco di ricette per salvare la società ma uno specchio sul passato e sulle domande che non trovano risposta.
Partiamo da lei. Nel libro mette insieme le pagine recuperate nel baule dei ricordi. Che persona è il Vittorino Andreoli che ha riletto?
«Quel Vittorino del passato io lo conosco poco. Era un uomo, e prima un ragazzo, che correva tanto, curioso, che aveva voglia di fare e che ha meditato poco. È stato bellissimo andare al ricordo del mio passato e mettere a confronto quel Vittorino con quello vecchio di oggi».
Perché pensa di parlarci del «futuro del mondo» partendo delle esperienze di un uomo quasi ottantenne?
«Già 50-60 anni fa c’era l’interrogativo sul futuro del mondo e già allora io mi ponevo tante domande sullo sfruttamento delle risorse naturali e sui tempi di sopravvivenza del pianeta. Gli stessi di oggi, insomma».
In un precedente saggio ha scritto l’elogio della vecchiaia e anche stavolta c’è qualche passaggio. È ossessionato dall’età che avanza?
«La vecchiaia è un modo di esistere e tutti credono che dovrebbe essere rivolta al futuro, a quello che ancora si può fare. Ma non è vero: la vecchiaia è un periodo meraviglioso perché fa nascere la voglia di rivedere la vita passata».
Perché dice di essere un «nemico della felicità»?
«Io sono un infelice gioioso. La felicità è qualcosa che riguarda il singolo ed è la risposta transitoria, cioè temporanea, a uno stimolo positivo. La felicità è un attimo, la gioia no».
Ha scritto che oggi solo gli imbecilli possono essere felici. Oggi più che mai?
«Siccome la felicità oggi la si lega al potere e al successo, direi che solo gli imbecilli si sentono felici. E tra loro ci sono i potenti. Però vorrei dire che non uso il termine imbecilli con toni offensivi, ma come una diagnosi. Il cretinismo è una categoria della psichiatria».
Lei dice che uno dei pilastri della vecchiaia è lo scetticismo. Non le sembra che sia il motto della società moderna, mette tutto in discussione?
«No, credo che la società moderna sia malata di empirismo radicale, la malattia del fare senza pensare. Lo scetticismo invece si fonda sul dubbio».
Nel libro l’unico spazio per la leggerezza è un viaggio al Nord. Si concede così poco?
«Pochissimo. Mi sono sempre concentrato sullo studio. Non mi sono divertito. Sono stato tutto il mondo, ma quella è stata l’unica vacanza».
Lei dice che i social hanno decretato la nostra morte. Non è troppo drastico?
«Da pessimista vedo un pericolo futuro e da buon pessimista dico state attenti. I social hanno un’attrazione straordinaria e finiscono per buttare via le relazioni tra gli uomini. I social cambiano il nostro cervello e io devo difenderlo».
Omicidio e normalità, dice lei, possono convivere nella stessa persona. Odio da social network e normalità convivono ugualmente?
«I due cervelli, cioè quello che teniamo in tasca e quello che portiamo in testa, hanno due logiche diverse. Un ragazzo cresciuto con lo smartphone in mano ragiona con la logica del "mi piace o non mi piace". Insomma, il cervello che abbiamo in tasca, a cui stiamo delegando sempre più funzioni, sta mandando a riposo quello che portiamo in testa».
Nel suo libro si possono leggere alcuni dialoghi. Uno, quasi irreale, è con un ambulante africano. Che cosa le ha insegnato quel ragazzo?
«È uno che in una situazione di estrema difficoltà cerca di sopravvivere e il modo che utilizza è molto più forte della razionalità dell’acquirente che non vuole il suo accendino. Rappresenta l’umanissima capacità di sopravvivere anche in condizioni difficilissime».
Razzisti si può diventare oppure si è stati solo bravi a mascherarlo?
«Biologicamente, come diceva Darwin, per sopravvivere l’uomo deve risolvere tre imperativi: l’alimentazione, la difesa del territorio e la fecondazione. La difesa del territorio e di respingere i soggetti diversi è una propensione. Lo fanno anche gli scimpanzé. Ma la cultura dovrebbe essere la capacità di trasformare le pulsioni in ragionamenti. Oggi dunque stiamo regredendo».
Come ha fatto a convincere un ergastolano che fuori dal carcere si è anche meno liberi e che alla fine la vita in cella non è poi così male?
«Noi abbiamo una grande capacità nella mente che è la fantasia. Una roba che per fortuna non ha lo smartphone. E così anche un ergastolano può vivere in un mondo che sia più di fantasia che di realtà. Ecco, diciamo che ho usato quest’arma».
Nel corso della sua lunga carriera ha incontrato studiosi, uomini di potere e criminali. Ma dice che lo sguardo che le è rimasto più impresso è quello Pietro Maso. Cosa le ha raccontato con gli occhi?
«Mi ha colpito non tanto perché ha ammazzato il padre e la madre, ma soprattutto perché fingeva. Comprendo un uomo che ammazza, ma non riconosco un uomo che falsifica un gesto così drammatico. Diciamo che l’uccidere è più umano, sta nella sua natura dell’individuo come diceva anche Freud. Ma la falsità e la menzogna mi hanno turbato molto, persino più di ciò che Maso ha avuto il coraggio di fare».
Sono cambiati i criminali? La società tecnologica ha influenzato anche la violenza?
«Certo, oggi la morte è diventata banale. Per gli adolescenti è uno strumento per togliersi dagli ostacoli. Il cambiamento è questo: la concezione della vita e della morte».
A proposito di socialità, è vero che nessuno la invita a cena? Come mai?
«Le persone che ho di fronte si preoccupano subito e vivono malissimo la cena perché sono convinte che al secondo piatto ho già fatto la diagnosi. Per questo nessuno mi invita».
La malattia più diffusa negli ultimi anni, secondo lei, è l’autismo digitale: quali i sono i sintomi?
«Nei giovani di sicuro. Si trovano adeguati a vivere solo di fronte a uno schermo. Lontano dal monitor avvertono sensazione di ansia, di paura, di disorientamento».
Ci dà una terapia?
«Bisogna considerare le persone come bambini e riportarle al concreto. Insegniamo loro a toccare gli oggetti che finora hanno solo visto nel video, ad abbracciare gli altri. Educhiamole alla sessualità, che oggi è diventata quasi esclusivamente virtuale. La terapia è la realtà».