La Stampa, 31 agosto 2019
L’Argentina di nuovo verso la bancarotta
Ci risiamo: l’Argentina è ancora una volta in crisi e rischia di nuovo la bancarotta. È bastato l’annuncio del neoministro dell’economia Lacunza della richiesta di moratoria delle rate in scadenza del debito estero al Fondo Monetario Internazionale, il principale creditore, per far entrare nel panico i mercati, che erano già agitati dopo il risultato deludente per il presidente Macri nelle primarie di due settimane fa, 15 punti di distacco dall’opposizione peronista in vista delle elezioni di fine ottobre.
Politica ed economia, come sempre sono intimamente legate per un Paese abituato a vivere sulle montagne russe; in duecento anni di storia Buenos Aires è finita ben nove volte in default. L’ultimo, del 2001 se lo ricordano bene i risparmiatori italiani, che si trovarono in mano 14 miliardi di euro di «tango bond» che valevano, sostanzialmente, carta straccia. Oggi la situazione è diversa, ma non troppo: il nuovo debito estero argentino è posseduto per lo più da organismi di credito o grandi investitori, che li hanno poi diluiti in centinaia di fondi misti, ed in molti, ancora una volta, temono una nuova ecatombe. Anche i cicli politici, in fondo, si ripetono.
A fine del 1999 il radicale Fernando De la Rua prendeva in mano un Paese da un’economia drogata dall’artificiale parità cambiaria del peso col dollaro inventata dal peronista Carlos Menem, che aveva distrutto il tessuto industriale e avviato un programma di privatizzazioni selvagge assai poco convenienti per lo Stato. La «cura da Cavallo», dal nome del ministro dell’economia dell’epoca, assieme alle ricette non azzeccate dei tecnici del FMI, fu di «lacrime e sangue» e finì nel blocco dei conti correnti e nell’insurrezione popolare.
Arrivarono cosi, di nuovo i peronisti, in una versione più populista; in 13 anni di governo di Nestor e Cristina Kirchner ha prevalso il modello assistenzialista, con milioni di assegni sociali e sussidi per i servizi pubblici. Per frenare l’impennata del dollaro, eterno barometro dell’economia argentina, fu posto un cambio fisso e furono adulterate al ribasso le statistiche sull’inflazione.
L’Argentina è stata esclusa dai mercati, mentre il debito pubblico aumentava. Mauricio Macri è arrivato al potere a fine 2015 promettendo di normalizzare la situazione. Ha tolto i sussidi e liberalizzato il cambio col dollaro, chiedendo alla gente di fare dei sacrifici per far uscire il Paese dal pozzo. La piazza finanziaria globale lo ha accolto a braccia aperte, Buenos Aires ha emesso nuovi titoli del debito, che sono andati a ruba, anche perché assicuravano coupon del 8-9% in un contesto di bassi interessi. Lo scudo fiscale ha fatto rientrare molti capitali dall’estero, ma l’economia non è ripartita. Il giocattolo, così, si è rotto: l’inflazione è salita dal 30% al 50%, la povertà è cresciuta; la Chiesa cattolica argentina ha chiesto ieri al governo di dichiarare «l’emergenza alimentare».
Macri ha invocato aiuto ai creditori ed ha ottenuto il maggior prestito mai concesso nella storia del Fmi, 57 miliardi di dollari, a cambio della promessa di maggiore austerità nei conti pubblici. Per i peronisti è stata l’occasione buona per tornare in piazza, con scioperi generali e mobilitazioni contro la stretta imposta alle famiglie. La stretta ha colpito il cuore dell’elettorato macrista, la classe media urbana che lo aveva votato perché stanca della corruzione dilagante dei Kirchner. «Con il piatto vuoto la gente non ti vota», si dice a Buenos Aires; a due mesi alle elezioni il distacco dal peronista Alberto Fernandez appare insormontabile. Macri è oggi un pugile suonato che non sa come arrivare a fine gara. Lotta contro la crisi, ma non solo: negli ultimi 80 anni un presidente non peronista non è mai riuscito a portare a termine il suo mandato. Per l’ex pupillo dei mercati oggi la sfida più grande è arrivare fino al 10 dicembre, la data del passaggio di consegne. Ed evitare un default che, a questo punto, è molto più che uno spauracchio.