Corriere della Sera, 31 agosto 2019
Julio Velasco, patriota italiano
Pensava di rimanere tre anni, giusto per capire il volley che conta. «E l’Italia non era al centro dei desideri: sognavo l’Europa». Non se n’è più andato, Julio Velasco. E ha preso pure la cittadinanza, un modo ideale per mantenere le radici nell’Argentina che non scorda («Quale anima pesa di più? Cinquanta e cinquanta») ma anche per trapiantarle in una Nazione che era nel destino anche a causa della storia familiare. «Papà era peruviano, studiava a La Plata. Mia madre era anglo-italiana. Il nonno era un contadino emigrato in Argentina, la nonna arrivava da Camogli. Mamma aveva un aspetto anglosassone, però amava l’Italia».
Julio (o Giulio, dal 1992) ha trovato l’America da noi. Ma vale anche il concetto rovesciato: Velasco ha reso grande la nostra pallavolo.
Storia intensa, ma dura all’inizio, «perché nessuno immagina quanto sia difficile essere emigranti, anche se si arriva in condizioni ideali». Peraltro a Pianello Vallesina, 1.000 anime, di ideale c’era ben poco. «Nel 1981 avevo venduto l’auto per finanziare un giro europeo: così incontrai l’Italia. Poi nel 1983 due giocatori di Jesi mi proposero di venire. La squadra era in A2, l’allenatore lavorava per le Ferrovie e lo sbattevano spesso in missione. Mi offrirono 6.000 dollari più l’auto. L’appartamento di Pianello, vecchio, con i mobili della nonna, lo metteva il farmacista del paese in cambio di una consulenza sul vivaio del club, emanazione del nostro, di cui era presidente».
Il seguito è da romanzo a lieto fine: la crisi societaria di Jesi («Mi ritrovai a cercare lavoro passando le giornate accanto al telefono e leggendo i giornali per scovare posti liberi»), lo sbarco a Modena con ritocco del salario («L’anno prima avevo rifiutato perché non sarei stato capo-allenatore. Rinunciavo a più soldi in cambio di un’idea: era piaciuto»), l’avvio del grande ciclo.
Velasco che diventa Velasco. Senza dimenticare il percorso. «Scoprii il rito delle vasche in centro per incontrarsi, cosa sconosciuta a me che venivo da una megalopoli. Conobbi l’umanità della provincia, frequentai le sagre paesane, “imparai” l’Italia dal suo cuore pulsante».
E la lingua? «Avevo preso lezioni, non ero a terra. Ragionavo però in spagnolo e preparavo testi che traducevo: alla sera mi ritrovavo con il mal di testa. Finché un giorno, facendo la barba, realizzai che stavo pensando in italiano...». Nel tempo libero ha letto e studiato. Poi «mamma» Rai ha fatto il resto: «I suoi programmi notturni mi hanno insegnato tanto. Pure la musica e la cultura mi hanno aiutato: sapevo di Mina e della Vanoni, ma qui ho sentito Dalla, De André e De Gregori. Ho poi conosciuto i film di Visconti, ho visto Nureyev allo Sferisterio, sono stato a teatro perfino in piccoli centri: la cultura diffusa è un valore italiano».
Da giovane Velasco era per la rivoluzione comunista. Oggi invece difende la democrazia, «pur con i suoi difetti». Lupus in fabula. È vero che la politica lo voleva? «Leggenda: non ho avuto mai proposte. E non le accetterei: la politica è mediazione, io amo le scelte decise. Però, considerandomi di sinistra, mi “affitterei” per discutere con Salvini: nessuno sa rapportarsi con lui». Non lascerà più l’Italia. Ma cambierebbe almeno due cose: «Basta pensare che il patriottismo odora di fascismo: dovrebbe anzi essere una bandiera della sinistra».
Poi c’è un orgoglio da rilanciare: «Ci consideriamo i parenti poveri, siamo sempre nel film “Pane e cioccolata”. Ci lamentiamo spesso di ospedali e scuole. Ma non rammento un giocatore che ho allenato del quale direi “guarda che asino”. E di ospedali ne ho visti ovunque: se volete, vi spiego».