Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2019  agosto 31 Sabato calendario

D’Annunzio nel 1906

L’estate del 1906 per Gabriele D’Annunzio significa Versilia, «il più bel luogo dell’Universo». Nell’imponente villa ottocentesca chiamata la Versiliana, il Vate si recò con i tre figli e «Nike», ovvero la marchesa Alessandra Carlotti di Rudinì, restandovi fino a novembre. È il primogenito Mario a farsi testimone di quel soggiorno parossistico: per la prima volta la famiglia è riunita, accompagnata da «una quindicina tra domestici e camerieri di primo e di secondo rango, cuoco, sguatteri, stallieri e giardinieri». Cinque cavalli nella scuderia, tra cui un gigantesco irlandese su cui Mario si esercitava da fantino sotto le istruzioni della marchesa, in convalescenza da un tumore all’utero. Una quarantina di cani tra levrieri e fox-terrier in perenne battaglia tra loro. La coppia di amanti occupava per lo più il suo tempo a galoppare nella pineta: «Mio padre allora, smontato da cavallo e rivestito di semplici mutandine, affrontava il sole a testa nuda, tanto che il nero colore del poderoso suo cranio eguagliava quello di tutto il corpo». Poi saltava su una canoa e cominciava a dare di remi con forza tenendo a poppa la marchesa e a prua Diana, il fox-terrier preferito della donna. Anche un amico del secondogenito Gabriellino fu ospite della Versiliana quell’estate. Era Umberto Saba, che raccontò quei giorni: «Mi accolse un bianco immacolato signore (...) ancora giovane, che aveva, e sapeva di avere, un sorriso affascinante». D’Annunzio si liberò del figlio allungandogli 50 lire e restò solo con il giovane poeta, al quale chiese di recitargli alcuni versi. Ne rimase ammirato, il Vate, al punto da assicurargli che l’avrebbe raccomandato a un editore. Tornato a Trieste, dopo tanti spasimi, correzioni e tremori, Umberto inviò la sua raccolta: «Ma il grande Smemorato né rispose, né mi rimandò mai il sudato manoscritto».