il Fatto Quotidiano, 30 agosto 2019
Carlo Verdone non è ipocondriaco
“Non ne posso più: io non sono un ipocondriaco”, esordisce così Carlo Verdone durante la serata di mercoledì che lo ha visto protagonista all’Arena CineVillage Talenti a Roma, in cui è stato nominato farmacista ad honorem. La motivazione? “Pur non perdendo l’occasione di farne materia di narrazione – ha letto il presidente dell’Ordine dei farmacisti – Verdone non ha mai dimenticato di mettere in guardia su cosa siano i farmaci: irrinunciabili strumenti se usati con proprietà, ma pericolosi se mal utilizzati”.
E di occasioni di narrazione ve ne sono state. Sul grande schermo, per citarne solo alcune, Verdone è stato il prof. Raniero Cotti Bottoni, il luminare della medicina di Viaggi di nozze (1995) che con il suo “No, non mi disturba affatto” risponde al telefono a ogni paziente durante la luna di miele con Fosca, addirittura durante la prima notte o al funerale di lei, quando fa riaprire la bara poiché gli è scivolato dentro il cellulare. E ancora Bernardo di Maledetto il giorno che t’ho incontrato (1992) che vuota sul letto il sacco di antidepressivi per trovare di che placare l’ansia di Camilla. E indelebile rimarrà la gag televisiva della farmacia notturna in cui dà voce ai diversi tipi di cliente/paziente, dal disperato in cerca d’aiuto al saputello che produce da sé le diagnosi.
“Quella che ho per la medicina e per i farmaci”, racconta il regista romano classe 1950 che durante l’incontro indossa anche il camice da farmacista con tanto di caduceo appuntato sul bavero sinistro, “è una passione che deriva dall’infanzia. A casa dei miei genitori sono passati i più grandi medici: l’oncologo Gerardo D’Agostino, che ti faceva solo due domande e scriveva subito di cosa avevi bisogno; i chirurghi Paride Stefanini e Pietro Valdoni”. Ma non fu solo un derivato dell’ammirazione, per Verdone i farmaci appartengono al proprio lessico famigliare: “Il comò di mia madre era un sagrato di farmaci. C’erano vitamine, molti ansiolitici, stabilizzatori dell’umore. E poi c’era mio zio, che viveva con noi ed era nato col mal di testa: un giorno stava bene e sei no”.
Il piccolo Carlo, allora, curioso e affascinato come in un negozio di giocattoli, ne prova qualcuno a caso e “Quasi ce restavo”, commenta con una risata, e ancora oggi è un fiume in piena, se deve annoverare i farmaci/giocattoli della sua stravagante fanciullezza, dai barbiturici alle aspirine, passando per le gocce. Poi, però, iniziò ad averne bisogno. “Una volta, a mia madre cadde accidentalmente del latte bollente sulla mia schiena, e da lì mi iniziarono a dare degli ansiolitici per calmare i tic che mi erano sopraggiunti”.
Da questa mistura (è il caso di dirlo) di accadimenti, proviene la fascinazione per la scienza medica: “Da ragazzo iniziai a leggermi tutta l’Enciclopedia medica della Curcio Editore. Ero convinto che avrei scelto medicina all’università. A un certo punto però”, incalza con fare da affabulatore, “arrivai alla definizione di ‘tracoma’, un disturbo oculare serio. In quel periodo soffrivo con gli occhi e mi ero quasi convinto di averne uno. Capii di essere troppo emotivo e di non poter fare il medico”. Sogno professionale che si realizzerà nel prossimo film, Si vive una volta sola, in cui impersona un eccellente primario di chirurgia.
Ma già adesso il dottor Verdone (la prima laurea honoris causa è in Medicina, conferitagli dall’Università Federico II di Napoli) non nega mai un consulto ad amici e parenti che chiedano conferma a lui dei pareri medici avuti. “A una mia amica ho salvato la vita. All’ospedale Gemelli le avevano diagnosticato la varicella, ma al telefono mi descriveva sintomi atipici. Ho un’illuminazione: è la Sindrome di Stevens-Johnson, non è da tutti diagnosticarla”, chiosa fiero, mentre in silenzio il pubblico attende lo scioglimento del racconto di Verdone che, proprio come al cinema, anche qui è sempre “malin-comico”: prende cioè le cose serie e le rende seriamente buffe, come una macchia sul vestito delle feste, è una cosa seria, eppure fa ridere. Riprende il racconto: “La mando subito all’ospedale Spallanzani dove il primario ha in una mano la diagnosi di varicella e nell’altra il cellulare con i miei sms in cui ordinavo di farle subito il cortisone. Com’è andata a finire? Si è fidato di me, e la mia amica ancora è viva”. Applausi!