Corriere della Sera, 30 agosto 2019
Intervista a Toni Servillo
Il panama scuro di 5 è il numero perfetto è il gadget più riuscito della Mostra 76.
Appartiene a Peppino Lo Cicero, Toni Servillo, l’ex sicario costretto a tornare in azione per vendetta, con l’aiuto della donna un tempo amata Valeria Golino e del sodale Carlo Buccirosso. Sullo sfondo la Napoli anni Settanta disegnata da Igort nel romanzo grafico di successo e ora nel film debutto, ieri alle Giornate degli autori e in sala: «È sempre esaltante per me partecipare a un’opera prima, c’è l’entusiasmo sorgivo, si è al riparo dalla routine, dal dover dimostrare qualcosa. Si nasce e basta», racconta Servillo all’appuntamento mattutino, Hotel Hungaria.
Un naso posticcio, il cappello nero, e Lo Cicero si anima dalle pagine del noir al cinema.
«Mi piace nascondermi dietro ai travestimenti, anche se il mio personaggio più conosciuto dal grande pubblico è Jep Gambardella, che ha la mia faccia.
In questo caso però la cosa difficile è stato truccarsi interiormente con le fragilità di un padre anziano che è stato un killer, per quanto gregario, di una mala anni 70».
All’inizio Lo Cicero regala al figlio, che ha ereditato il suo lavoro da killer, una pistola speciale per il compleanno, gli prepara il caffè prima che vada ad ammazzare qualcuno. Poi i piccoli grandi codici della mala in cui è vissuto crollano durante il racconto.
«Nel momento in cui sta raccogliendo la tranquillità della senescenza un accadimento rimette in discussione la vita e gli fornisce la consapevolezza che spesso sentirsi con la coscienza a posto è un’illusione. Peppino è il contrario dell’eroe assassino, è costretto a usare le pistole ma poi le abbandona perché realizza che la vendetta e i rimpianti sono un bagaglio da lasciare per affrontare nudo la vita. 5 è il numero perfetto ti racconta che a un certo punto ci si trova avendo solo a disposizione due gambe, due braccia e la faccia. Napoli fa da palcoscenico, come per altri artisti, al racconto simbolico di qualcosa che va oltre. Il nocciolo, tra le mille citazioni cinematografiche e letterarie, è un racconto di redenzione».
Da anni in concorso alla Mostra ci sono film su Napoli e il Sud.
«Ricordo, perché ne sono stato protagonista, l’anno in cui a Cannes vinsero Gomorra e Il divo, uno girato a Napoli da un grande regista romano, l’altro di un cineasta napoletano. Napoli è una città con un’infinità di problemi e contraddizioni che però alimentano una creatività che non si ferma mai. E una tradizione enorme nelle arti sceniche, ma anche in letteratura, musica e poesia. Per un artista là dove il conflitto è acuto e la vita pulsa c’è più nutrimento rispetto a dove tutto scorre noiosamente».
Nel film c’è la Napoli anni Settanta, che ricordi ne ha?
«Ho vissuto il finire dei Settanta a teatro, in una Napoli più capace di conservare le tradizioni e nutrirsene, in cui più difficilmente arriva la modernità che omologa.
Ho fatto in tempo a vedere certi fenomeni epigonali della grande sceneggiata a cui Igort fa riferimento con Totò o’ macellaro, Carlo Buccirosso, lo stesso Lo Cicero. Oltre che la bellezza delle immagini e la fotografia, del film mi piace la qualità umana dei personaggi che si esprime con un napoletano antico che guarda a Eduardo e Viviani. Peppino segue le regole d’onore, ma con una certa eleganza interiore napoletana e parla con quella lingua teatrale dove la precisione del significato si porta dietro anche l’emozione di un sentimento».
Il linguaggio di Eduardo diventa contemporaneo in “Il sindaco del rione Sanità” portato alla Mostra da Martone.
«Mario e la compagnia Nesta, che è importante a Napoli perché porta il teatro nelle zone difficili, hanno dato una lettura contemporanea e riuscitissima del testo. Con Martone prepariamo un film sulla figura di Eduardo Scarpetta, padre dei tre De Filippo. Gireremo il prossimo anno e sarà bellissimo tornare a lavorare con lui e su con questo grande personaggio del teatro italiano».
Con Martone venne la prima volta qui alla Mostra.
«Eravamo con Teatri Uniti, una compagnia di giovanissimi che aveva alle spalle dieci anni di teatro importante, Mario Martone ebbe l’idea di scrivere e realizzare produttivamente un film, Morte di un matematico napoletano. Il direttore Gillo Pontecorvo se ne innamora, alla Mostra di Venezia arriva con Carlo Cecchi una schiera di giovani, tra cui io e il produttore Nicola Giuliano, allora semplice delegato di produzione.
Per me è stato l’inizio di tante cose: avevo poco meno di quarant’anni e immaginavo che la mia vita sarebbe stata tutta nel teatro, e invece si è aperta anche la strada parallela del cinema».