Corriere della Sera, 30 agosto 2019
Intervista a Brad Pitt
Prima che rivenga inghiottito dalle sue guardie del corpo, Brad Pitt finalmente libero sembra uno studente fuori quota, l’aria sbarazzina easy going, pronto a dividere una birra. Con la sua immutata bellezza assassina, porta i basettoni lunghi e un numero imprecisato di bracciali, collanine, anelli. Dopo il divorzio da Angelina Jolie, e il crollo dell’immagine della famiglia perfetta, quanti erano pronti a scommettere che la fama di Brad Pitt sarebbe aumentata? In Ad Astra del regista «intellettuale» James Gray, spunta dalle tenebre dell’abisso e si illumina d’immenso nei panni di Roy, un astronauta in cerca del padre, Tommy Lee Jones, che fa lo stesso mestiere, è disperso nello spazio e persegue un progetto catastrofico per la Terra.
Thriller fantascientifico più dalla parte di «Solaris» che di «Gravity»?
«Sì, è un viaggio in cui Roy scopre segreti che minacciano l’esistenza umana. Mi affascinava una storia intimista nello spazio infinito. Il padre, ritenuto morto, era un genitore che lo ha abbandonato da piccolo e la sua assenza ha fatto di Roy, che continua a idolatrarlo, una persona solitaria incapace di esprimere le sue emozioni. Sta perdendo la sua umanità, sta diventando come suo padre».
Se si parla di sfida...
«Parola abusata, ma stavolta ci sta. È stata la mia più grande sfida come attore: tirar fuori emozioni, solo, nello spazio, senza una vita affettiva. E poi sul set, in tuta, me ne stavo lì a penzolare dai fili, sospeso a dieci metri da terra».
Ma quale è stato il viaggio più avventuroso che ha fatto nella sua vita?
«Quando da ragazzo ho lasciato il Missouri e sono andato a Los Angeles con 2-300 dollari in tasca, senza conoscere nessuno, senza la minima idea di quello che avrei fatto. Sono un miracolato che ha vinto la Lotteria, e resto un istintivo».
E se non le piace una domanda cosa fa?
«Non nascondo il fastidio. Per esempio, quando mi dicono che sono ancora un sex symbol, scuoto la testa e svicolo».
Come ha lavorato sulla solitudine dell’astronauta?
«Per quanto cerchiamo di nasconderle, ci portiamo dentro dolori e ferite dell’infanzia».
Ha pescato nel dolore per il divorzio?
«Beh, il mio astronauta è un eroe fragile. Un attore deve usare quei sentimenti, deve essere onesto, vulnerabile, aperto, non cercare di essere simpatico o antipatico».
Il regista dice che ha una grande compassione.
«Siamo troppo abituati a creare barriere, a negare il dolore, la vergogna. Siamo partiti da una domanda: c’è la possibilità di un rapporto migliore con le persone che amiamo e con noi stessi?»
Gray dice anche che lei lo chiamava alle due di notte…
«Davvero? Ma era lui che mi chiamava! Siamo amici dagli Anni 90, era da tanto che volevamo lavorare insieme. Certo, essendo anche produttore avevo qualche preoccupazione in più. Ci sono rimandi, citazioni di cinema e romanzi…da Cuore di tenebra di Conrad a Moby Dick e Apocalypse Now. In questa storia, immensa e delicata (ci siamo concentrati nell’equilibrio di questi due elementi) puoi trovare archetipi. Credo nella forza del mito. Ma gli eroi di James hanno una visione personale. Quanti film di fantascienza toccano davvero la nostra anima? Io non sono un tipo da Guerre Stellari».
È anche un film sulla memoria. Lei è un cinefilo come il suo amico Quentin Tarantino?
«No, da giovane andavo al Drive In, ora se guardo un film in tv mi sintonizzo su una commedia, le tragedie non ce la faccio. Ma sono cresciuto con i film degli Anni 70, grande periodo dove non trovi buoni o cattivi ma un’umanità complessa. E credo che qui possiamo ritrovarla».
Pensa che potrà ambire al suo primo Oscar?
«Intanto aspettiamo che esca e vediamo le reazioni del pubblico. Ogni anno gente di talento prende la statuetta e altre di eguale talento non la prendono. Hanno vinto tanti miei amici. Sono contento lo stesso».
Così parlò Brad Pitt, stella di Hollywood tra le stelle dell’universo.