il Fatto Quotidiano, 29 agosto 2019
Jules, Jim e Kathe
Jules e Jim: i conformisti dell’anticonformismo. D’altronde l’amore è banale, segue sempre lo stesso canovaccio: che si sia in due, in tre, in quattro meno uno, in cinque per sei, il prodotto non cambia. Così come le parti in commedia: c’è quello che ama di più, quell’altro che ama di meno e quella che ama entrambi, ma farebbe meglio ad amare se stessa. E smetterla coi tentati suicidi.
La storia sarebbe finita lì, se uno dei protagonisti, Henri-Pierre Roché – alias Jim –, non avesse deciso, molti anni dopo la morte dell’amico e la fine della liaison con la di lui moglie, di scriverci un romanzo, diversamente detto autofiction (in Italia edito da Adelphi). Jules e Jim esce nel 1953, ma non se lo fila nessuno: vince un premio, vende poco; segue il macero. Sarà il diabolico François Truffaut a riesumarlo nel 1962, suggellando sul maxischermo il triangolo amoroso più famoso di sempre, quello tra i due amici del titolo e Catherine/Kathe, all’anagrafe Helen Katharina Amita Berta Grund in Hessel. Franz Hessel, il marito, ovvero Jules, è appunto il terzo incomodo dell’intreccio.
Nati tutti e tre a fine Ottocento in buone famiglie, Pierre (1879-1959) è uno scrittore e collezionista d’arte francese; Helen (1886-1982) è un’artista tedesca; Franz (1880-1941) è un autore tedesco (austriaco nella finzione), famoso soprattutto per aver tradotto la Recherche di Proust insieme col collega Walter Benjamin. Helen e Franz si conoscono, e innamorano, a Parigi nel 1912, convolando a nozze l’anno successivo e figliando due volte. Pierre entra in scena nel 1920, a guerra finita e in quel di Monaco, precisamente uno chalet bavarese, in cui incontra per la prima volta la donna, mentre l’uomo è una vecchia conoscenza, dai primi del Novecento a passeggio per Montparnasse. È una approfonditissima conoscenza la loro, tanto che lo sposino intuisce subito come andrà a finire tra sua moglie farfallona e il suo amico farfallone. Solo si limita ad allontanarsi, rintanandosi per un po’ a Berlino e pregandoli di non fare figli. Così sarà, complice un aborto.
La tresca extraconiugale nasce proprio sotto gli occhi di Franz, e con il suo silenzio assenso: il colpo di fulmine scatta quando Pierre punta un fucile giocattolo contro Helen. E lei crolla: è una passione violenta, si capisce, che annovera anche qualche gesto folle da parte della donna, come camminare sulle rotaie verso i treni in corsa o schiantarsi in auto a tutta velocità. Ma “fra le sue cosce c’è il paradiso”, sostiene Pierre, e perciò l’amore sopravvive a più d’una pazzia, alla disperazione, alle convulsioni e finanche ai tradimenti reciproci: dare i numeri e fare i numeri è sempre stata la loro vocazione. Il francesino si vanta di aver posseduto più di 200 fanciulle: “Con le donne bisogna fare come con le pernici: cacciarne più di una alla volta”. Finisce a letto pure con la sorella di Helen, giustificandosi intanto che la sua “poligamia è dolce, onesta e naturale”. Beh. Oltre ai velati tentativi di suicidio, Helen risponde all’amante tradendolo a sua volta e beccandosi due ceffoni in cambio. E crolla una seconda volta, accettando di farsi ritrarre dalla sorella mentre fa l’amore con Pierre. Il triangolo si fa quadrato, e il cerchio non si chiude mai, ma pare sia fonte di ispirazione per tutti: le due artiste e i due scrittori, tanto che Roché inizia a meditare di scriverci un romanzo, subito accantonato per i rimbrotti di Franz. Cornuto va bene, ma il mondo non deve sapere.
Il francese ci ripensa solo negli anni Quaranta, durante l’occupazione nazista e dopo la morte di Hessel, deportato con il figlio Ulrich (a causa delle origini ebraiche) in un campo di concentramento nel 1940 e deceduto l’anno successivo per la grave debilitazione fisica e psichica. Pierre allora decide di rimettere mano ai suoi appunti per raccontare la storia del suo amico e di sua moglie (e sua). Il primo titolo del romanzo è, infatti, Un’amicizia, ma il triangolo carnale ha la meglio sul sodalizio spirituale e Helen vince su Franz. Basta, “si intitolerà Jules e Jim – confida l’autore – ed è la storia di un’amicizia che dura anche in presenza di una situazione sentimentale estremamente complicata”. Convinto lui… L’io narrante si camuffa dietro una più neutra terza persona, la cronaca si impasta con la fiction, i ricordi con la fantasia.
La stesura è lenta e difficoltosa: il testo definitivo sarà licenziato più di dieci anni dopo, nel 1953, quando ormai Roché è “un adolescente di settantaquattro anni”, al suo debutto nella narrativa, mentre l’ex compagno Franz viene ritratto come lo “spione della felicità”. Un omaggio lusinghiero. “Scrivere mi rende felice”, appunta l’autore tra una pagina e l’altra, mentre intanto riflette sulla chiusura del libro. “Kathe precipiterà insieme a Jim nella Senna, davanti agli occhi di Jules, è una finzione, ma è l’unico finale possibile”. Nella realtà, invece, la relazione adulterina dura tredici anni, interrompendosi nel 1933 per volontà della donna.
Fumantina e appassionata, Helen ha altro a cui pensare: morto il marito, cerca di ottenere un visto per gli Stati Uniti per se stessa e per Ulrich, mentre il secondogenito Stéphane, arruolatosi nella Resistenza francese, è al fronte. Per inciso, Stéphane Hessel (1917-2013), poi diventato diplomatico, è assurto alle cronache mondiali nel 2010 per il suo piccolo e incisivo pamphlet Indignez-vous! (Indignatevi!). La madre seguirà lui in America, a New York, dopo la guerra e il fallimento del progetto del primogenito, continuando a lavoricchiare come scrittrice più che come pittrice: negli anni Sessanta, sulla scia del marito, traduce in tedesco un altro classico della letteratura, Lolita di Nabokov, mentre i suoi diari escono postumi, nel 1991, col titolo di Journal d’Helen e altri dettagli della tormentata relazione tra lei, il marito e Roché. Apprezzata, non solo come amante, la signora Hessel ha anche il privilegio di amicizie elettive tra un amorazzo e l’altro: “I suoi articoli mi deliziano”, la lusinga Adorno, mentre Rilke le dedica perfino una poesia: “Geranio che sboccia/ in una dolce sera piovosa/ che la tua gioia scarlatta/ mi penetri meglio/ del presagio più tenero”.