Libero, 29 agosto 2019
Gli amici terroni di Vittorio Feltri
Molta gente mi accusa di essere antiterrone, cioè di detestare i connazionali nati e cresciuti da Roma in giù. Critiche superficiali e false. La verità è che ho avuto ed ho pochi amici, la quasi totalità dei quali è (ed era) meridionale. Ne cito alcuni, i più cari: Paolo Isotta, insigne scrittore, Ettore Botti, Salvatore Scarpino e Gaetano Afeltra, giornalisti di vaglia. Tra i politici che un tempo conobbi e frequentai, c’erano uomini di valore, mentre quelli di oggi mi sembrano modesti, per usare un termine gentile, eppure assatanati, vogliosi di sbranare il potere usando mezzucci squallidi. Al confronto di costoro, i personaggi del Sud di una volta erano giganti sia sotto il profilo culturale sia sotto quello etico e tecnico. Ne ricordo qualcuno, i migliori, che durante la prima Repubblica si sono distinti per saggezza e competenza. Cossiga, per esempio, era un autentico fenomeno: non si dava arie, la sua cifra era la semplicità mista ad arguzia e intelligenza. Ricoprì varie cariche distinguendosi per efficienza e sagacia. La più alta, quella di Capo dello Stato. Egli rimase al Quirinale a cavallo degli anni Ottanta e Novanta, quando tangentopoli infuriava. Comprese per primo che il regime democristiano era alla frutta e sarebbe finito malamente qualora lo scudo crociato non avesse trovato la forza e le risorse per respingere gli attacchi della magistratura. Cominciò a sferzare tutti, non solo gli amici di partito nella speranza di ricondurli alla ragione. All’epoca, famosi furono i suoi colpi secchi al sistema marcescente che venivano ripresi dalla stampa con notevole evidenza. In quel periodo io dirigevo l’Indipendente e pernottavo al residence Romana, a Milano. Spesso la mattina presto mi telefonava. Il portiere mi avvertiva: «C’è un tizio che le vuol parlare, sostiene di chiamare dal Quirinale». Me lo passi, dicevo. Era Francesco che affermava: «Caro Vittorio, oggi piccono». In effetti i suoi interventi denigratori della casta erano definiti picconate, e lo erano. Mi informava delle sue intenzioni affinché predisponessi la mia redazione a prenderne atto con la dovuta attenzione. Io stavo al gioco e lo accontentavo perché convinto che avesse ragione da vendere. L’indomani le sue picconate venivano esaltate sul mio quotidiano. Diventammo amici e lo rimanemmo pure allorché se ne era andato dal Colle. Fondai Libero e Cossiga mi chiese di incontrarmi; fui felice di accordargli un appuntamento nella sede del giornale. Dove un pomeriggio si appalesò un po’ zoppicante. Conoscendo il suo amore per il Whisky scozzese gli offrimmo un sorso di Lagavulin ovviamente torbato. Che gradì. Poi fece un giro nelle nostre modeste stanze stringendo la mano a ogni collega. Infine mi fece una proposta che non si poteva rifiutare: «Vorrei diventare giornalista, iscrivermi all’Ordine e quindi scrivere articoli per voi». Fantastica idea. Il presidente emerito iniziò una fitta collaborazione raccontando stupendi aneddoti politici che ci aiutarono a incrementare la diffusione. il whisky del picconatore Cossiga era disciplinato oltre che cortese. Annunciava i suoi pezzi deliziosi e li inviava con puntualità svizzera. Per parecchi anni ci gratificò con la sua produzione letteraria pregevole. Appena ottenne, due anni appresso, l’iscrizione all’ordine mi invitò a pranzo e festeggiammo al ristorante Trussardi di Milano. Questo era Francesco. Impossibile non apprezzarlo e amarlo. Era colto. Capace. Aveva un solo difetto: troppo perbene per essere accettato nelle sue alzate di ingegno. Lo rimpiango. Quando incontrai Ciriaco De Mita era da poco stato rapito ed ucciso Aldo Moro ed era quindi alle battute finali la politica di compromesso storico che negli anni precedenti aveva tentato di portare al riavvicinamento tra Democrazia Cristiana e Partito Comunista Italiano, il quale tuttavia non arrivò mai a partecipare al governo in una grande coalizione. La Dc, risoluta ad archiviare questa fase e ad intraprendere un nuovo corso, inaugurò una serie di convegni a cui presero parte i personaggi politici di spicco. Fui mandato dal Corriere ad uno di questi raduni, che si tenne sul lago Maggiore, dove ebbi modo di ascoltare il discorso di De Mita, facendone la cronaca e riportandone i concetti, espressi dal politico con il suo linguaggio fumoso. Il giorno seguente, uscito il pezzo, De Mita, allora ministro, mi telefonò complimentandosi per la mia scrittura. Restai attonito. Di lì a poco ebbe inizio la campagna elettorale ed io fui incaricato dal mio giornale di seguire i leader dei diversi partiti nei loro comizi. Si trattava di un mandato rilevante. Mancai di partecipare solo ai convegni di Bettino Craxi, il quale si oppose alla mia presenza. i moccoli di ciriaco Quando comunicarono a Ciriaco che sarei stato io a scrivere riguardo la sua campagna elettorale, ne fu molto lieto. Raggiunsi come prima tappa il Piemonte, dove una folla straripante accolse De Mita. Alla sera avrei dovuto recarmi a Roma e Ciriaco, avendolo appreso, mi invitò sull’aereo privato del suo caro amico Calisto Tanzi, sul quale egli stesso viaggiava. Insistette tanto che non potei rifiutare. Durante il volo il ministro ed un altro passeggero si misero a giocare a carte, a tresette, con un certo coinvolgimento, tanto che arrivarono persino ad incazzarsi e a bestemmiare. Non persi l’occasione di raccontare anche questo spaccato di “ordinaria” quotidianità nel mio pezzo. Ciriaco ne fu molto divertito. Un ferragosto fui inviato dal Corriere nel paese natale di De Mita, a Nusco, in provincia di Avellino. Trovai alloggio in un albergo orrendo, del resto da quelle parti non c’era molta scelta. Giunto in hotel, dalla mia stanza, chiamai Ciriaco, il quale mi disse che in quel momento era impegnato e mi diede appuntamento per il giorno seguente. L’indomani mi presentai a casa del politico, una villetta graziosa seppure arricchita con elementi dal gusto discutibile, come un pozzo finto piantato in giardino. Davanti all’abitazione fui catapultato in un passato ancestrale, anzi medioevale, ritrovandomi in mezzo ad una folla di persone che andavano a porgere omaggio a De Mita, stringendo sotto il braccio chi un cappone chi una pagnotta. Per non creare turbamento, mi misi in fila anche io, pur essendo a mani vuote. una folla di questuanti Giunto finalmente il mio turno, fui spinto in casa con calore da De Mita che mi offrì un bicchiere o due di Falangina, servito freddo. Ma a ristorarmi dall’afa non fu il vino ghiacciato, bensì le freddure di Ciriaco nonché una spassosa barzelletta che aveva come protagonisti De Mita stesso e Craxi. Ciò che suscitava maggiore ilarità era la circostanza che a raccontarmela fosse Ciriaco stesso, che continuava a ridere a crepapelle. Non mancai di allietare anche i lettori con quella storiella buffa. Scrissi il pezzo, lo consegnai, il mattino seguente mi recai in edicola e con mio grande stupore vidi che il mio articolo non solo era finito in prima pagina, ma costituiva titolo di apertura. De Mita mi telefonò felice, ringraziandomi e facendomi i complimenti per la mia opera. Nel 1992 l’uomo divenne presidente della Commissione Bicamerale per le riforme costituzionali, dopo neanche un anno ne fu estromesso ed io feci questo titolo: “De Mita lascia la Bicamerale, gli rimane l’attico”. La titolazione prendeva spunto dal fatto che, quando era diventato presidente del Consiglio nel 1988, De Mita andò ad abitare in un attico preso in affitto, messo in sicurezza dai servizi segreti. Va da sé che Ciriaco non se la prese. In fondo, erano state maggiori le occasioni in cui gli avevo reso onore riconoscendo il suo merito. Come quando, dopo il terremoto in Irpinia del 1980, scrissi un pezzo sull’avvenuta ricostruzione nel quale sottolineai il fatto di avere trovato il paese di Ciriaco risanato in modo impeccabile, segno che questi avesse utilizzato in modo efficace i soldi pubblici destinati proprio alla ricostruzione. Credo che De Mita questa cosa se la fissò in testa. Assunta la direzione de Il Giornale, lo statista invitò me e Paolo Mieli, allora direttore del Corriere della Sera, ad Avellino per prendere parte ad una conferenza sul dopo terremoto. Terminato il convegno, Ciriaco ci condusse a cena a casa sua. Erano presenti, oltre alla moglie, che cucinò in modo stupefacente, anche i suoi figli. L’atmosfera era intima, familiare, lieta. Ricordando il pozzo finto in giardino non mi stupì la vista di un’enorme statua di San Ciriaco che dominava il salone principale, regalo fatto al politico da un parroco locale. Durante il lauto banchetto discutemmo anche di politica. Io sostenevo che la Dc fosse oramai finita. De Mita si incazzava. Litigammo, ma oramai eravamo diventati amici. Tuttora Ciriaco mi è molto affezionato e mi telefona di tanto in tanto. si credevano invincibili Quell’attico famoso De Mita lo acquistò alla fine, al prezzo stabilito dall’ente proprietario, una cifra piuttosto conveniente. Tutti i media lo attaccarono con violenza. Io lo difesi sostenendo che solo un idiota si sarebbe fatto sfuggire la ghiotta occasione di acquistare ad un ottimo prezzo un’abitazione nella quale dimorava da tempo. Ciriaco, figlio del sarto di Nusco, era un leader dall’animo semplice e pieno di premure. Con le inchieste di “Mani pulite” la Dc entrò in crisi, il suo potere continuava ad erodersi, ma era come se i suoi vertici non se ne rendessero conto. Andai a trovare Cirino Pomicino al Ministero del Bilancio e gli dissi: «Come fate a non vedere che state morendo? Vi stanno massacrando». Ed egli rideva. I democristiani si credevano invincibili. Le cose poi andarono come avevo previsto. Gli eredi di Cossiga e De Mita sono indegni. C’è terrone e terrone.