Libero, 29 agosto 2019
L’Italiano storpiato dagli inglesismi
«Sì, caro signore, per me non c’è dubbio che gli angeli del cielo parlino italiano. Impossibile d’immaginare che queste belle creature si servano di una lingua meno musicale». È così che il Professore di linguistica romanza Harro Stammerjohann conclude il libro La lingua degli angeli. L’opinione del letterato circa la soavità dell’italiano non è un caso isolato: Babbel (famosa piattaforma online per l’apprendimento delle lingue) ha indetto un sondaggio finalizzato a testare i gusti degli utenti in fatto di idiomi; dall’indagine – svolta col contributo di 14mila clienti – è emerso che, ad esercitare più attrattiva di tutte le parlate, sarebbe quella italiana, che ad oggi è la quarta più studiata la mondo. Ne subiscono il fascino soprattutto i francesi, di cui un 27,1% si è detto capace di capitolare per un madre lingua del Bel Paese anche e solo per la sua favella, ed un 44,8% di loro ritiene che non vi sia al mondo lingua più erotica. Neppure gli spagnoli disdegnano il nostro antico idioma: a dirsene sedotto è il 24,9%. Nella lista vi sarebbero anche svedesi e inglesi. Tutto ciò non sorprende alla luce del fatto che, l’italiano, si è reso utile a narrare l’amore più sublime, e l’ha fatto attraverso le opere letterarie di personaggi quali Dante, Petrarca e Manzoni. Anche William Shakespeare ha contribuito ad accrescere la poesia collaterale alla nostra lingua, collocando, due tra gli innamorati più famosi di tutti i tempi quali Romeo e Giulietta, in una Verona cinquecentesca. Ma diciamoci la verità: a conferire charme alla parlata non è tanto il genio dei grandi autori del passato, quanto un’ineguagliabile metrica che rende la lingua pertinente ad affrescare le passioni umane; dalle più iraconde e colleriche alle più suadenti e idilliache. LE ANALOGIE Come faccia non si sa: potrebbe dipendere dalle strette analogie col latino, o magari dal potente influsso che ebbe sull’arte musicale rinascimentale e barocca (i cui autorevoli esponenti erano per lo più italiani), e chissà che il merito non spetti a quegli sciocchi luoghi comuni secondo i quali, la nostra, sarebbe una “lingua maledetta”. Un po’ dannata, di fatti, lo è: basti pensare che, alcuni termini di uso comune, hanno un significato ambivalente; “ospite” è uno di questi. Persona che viene ospitata, in inglese, si traduce con “guest”, persona che ospita “host”. Da noi la distinzione non esiste, e l’accezione di questo, come di tanti altri vocaboli, è affidata all’intuito dell’uditore. Forse fu proprio la natura a tratti ostica del lessico ad affinare la perspicacia del nostro popolo, cui oggi spetta il primato in fatto di acume, sagacia e presenza di spirito. Ma torniamo all’argomento della disputa: mentre alleniamo disperatamente l’orecchio alla corretta pronuncia delle parlatissime lingue anglofone, pare che agli stranieri suoni irresistibile quella tipica propensione alla vocalità che ci spinge, quasi per riflesso incondizionato, ad aggiungere una vocale indistinguibile alla fine di ogni parola terminante in consonante. Ed ecco che in questo spirito, un’espressione quale “Thing (dall’inglese “cosa”), sulla nostra bocca suona quasi come “Tinghe”. Le ragioni per le quali andare fieri del nostro idioma sono ormai evidenti, e mi risultano anche più sensate le sollecitazioni del direttore Feltri ad astenermi dagli inglesismi: una volta mi ha invitato a tradurre un concetto che l’inglese pretendeva di riassumere con una sola parola; non rammento quale fosse il vocabolo, ma ricordo che il pezzo lievitò di almeno 120 battute. Il nostro, del resto, non è certo il linguaggio della sintesi, ma qualora all’italiano fosse piaciuto fare le cose in fretta non sarebbe passato alla storia quale amatore più passionale di tutti i tempi.