La Stampa, 29 agosto 2019
Grillo mette in crisi Di Maio «Beppe, così mi ammazzi»
Quando sfiora lo smartphone e lo schermo si apre sul post di Beppe Grillo, la prima reazione di Luigi Di Maio è questa: «Ci mancava solo lui». E in effetti, vista in sequenza, la serie è impressionante: il Pd che gli sbarra la strada verso la riconferma alla carica di vicepremier; lui che in un comunicato inacidito dalle accuse invita tutti a pensare più ai temi che alle poltrone ma non smentisce le proprie ambizioni; il passaggio finale del discorso al Quirinale dove rivendica il doppio sacrificio, di aver rinunciato alla premiership un anno fa e di aver respinto la stessa offerta tentacolare avanzata qualche giorno fa da Matteo Salvini per sabotare l’alleanza con il Pd. Infine: il messaggio di Grillo che sferza la «poltronofilia» imperante in queste ore, proprio mentre Di Maio sta studiando la migliore strategia da contrapporre all’assedio del Pd su Giuseppe Conte per estromettere il capo politico grillino da Palazzo Chigi. Di Maio non esclude addirittura di uscire dal governo, per evitare di apparire un ministro dimezzato oltre che un leader fiaccato. Passato da tre incarichi a uno, e neanche in uno dei ministeri di prima fascia, ma al Lavoro o alla Difesa. Guiderebbe il Movimento da fuori, come Nicola Zingaretti, magari lasciando che sia un altro grillino a prendere il suo posto. Con mille incognite però, potenzialmente esplosive per Conte. Di Maio potrebbe saldare il suo malumore alle barricate di Alessandro Di Battista e complicare la vita al governo. Vuole restare vice, certo di poter contare sulla sponda del presidente del Consiglio che insiste sullo schema già esperito con la Lega. Ecco perché gli è tornata la voglia di rilanciare sul Viminale, con l’idea di costringere il Pd a cedere sul doppio vicepremier.
Quando chiama Grillo, un secondo dopo aver letto il blog, è furioso: «Così mi ammazzi, Beppe» gli dice. Assieme al comico, sentendo anche Palazzo Chigi, studiano come correggere il tiro. Perché il post è abrasivo sulle ferite ancora fresche della trattativa con il Pd, anche per il tempismo, che svela il prurito alle mani di Grillo, la voglia di ricalibrare il suo Movimento, nato rivoluzionario e finito a studiare il manuale Cencelli.
Qua sembra che tutti vogliano dire la propria sui ministri. Conte aspetta la formalizzazione dell’incarico. Poi come prima cosa leggerà ai suoi interlocutori grillini e dem l’articolo 92 della Costituzione «Il presidente della Repubblica nomina il presidente del Consiglio dei Ministri e, su proposta, di questo, i ministri». Il premier ascolterà le ragioni del Pd che sostiene non sia accettabile avere un premier e un vicepremier del M5S e ribatterà che la sua guida sarà più solida con due uomini ad affiancarlo. Oppure nessuno.
Grillo piomba senza preavviso nell’ultima giornata di consultazioni, quella che apre la fase embrionale del governo giallorosso. Una giornata che esaspera il racconto sulla fame di poltrone di Luigi Di Maio. Il comico abbozza un manifesto ideale, spiegando con inedita chiarezza che «non ci sono i tempi né per un contratto e neppure per chiarirci su ogni aspetto, anche fintamente politico, delle realtà che i ministeri dovranno affrontare». E dunque: «Oggi è l’occasione di dimostrare a noi stessi ed agli altri che le poltrone non c’entrano nulla: i ministri vanno individuati in un pool di personalità del mondo della competenza, assolutamente al di fuori dalla politica. Il ruolo politico lo svolgeranno i sottosegretari» che dovranno «governare i “tecnici” della burocrazia che li occupano da tempo immemore». Nelle chat dei vertici del M5S spuntano file di punti interrogativi, faccine con gli occhi sbarrati. È lo stupore di una mossa inattesa, deflagrante, l’ennesima con la quale Grillo è tornato centrale in questa lunga crisi d’agosto. Vorrebbe dire fuori Di Maio e i due ministri sui cui conta di più: Alfonso Bonafede e Riccardo Fraccaro. Il comico è costretto a giustificarsi e smentire se stesso attraverso la comunicazione del M5S. Prima dice che si riferiva solo a «ministeri tecnici», come se i ministeri fossero un po’ più tecnici o un po’ meno politici. Poi che era una battuta, «un paradosso». Di Maio rivendica a sé il ruolo del capo politico che il garante gli ha già scippato nelle ultime due settimane. La sua leadership già barcolla, soffocata dai gruppi parlamentari in rivolta, l’ascesa di Conte, il ruolo di Davide Casaleggio, l’astuzia di Zingaretti che lo aggira cercandosi altri interlocutori. In mattinata, in sua difesa, parte la batteria delle dichiarazioni dei grillini a lui più fedeli, sotto la regia del suo staff. «Chi tocca Di Maio tocca il M5S». Si allinea anche chi è poco convinto della sua lucidità politica mostrata in questi giorni. Ma i gruppi parlamentari sono davvero a un passo dalla richiesta di sfiducia collettiva. L’assemblea congiunta di qualche giorno fa aveva chiesto di valutare di non sottoporre l’alleanza con il Pd alla rete. Senza preavviso, però, Di Maio diserta il confronto con i deputati e senatori di martedì, e alla fine della riunione ristretta con i capigruppo, pubblica un post in notturna in cui annuncia il voto sulla piattaforma Rousseau del progetto di governo. «Il risultato ha la stessa legittimità del voto in direzione del Pd». Un affronto che gli scatena contro la reazione dei parlamentari, oltre quella del Pd, e lo costringe a far filtrare rassicurazioni su Conte – «ne era a conoscenza» – e più informalmente sulla possibile formulazione del quesito. Considerata la mole di commenti negativi sul blog, il rischio bocciatura è altissimo. Per questo si sta pensando di trasformare la votazione in un referendum su Conte, che a tutti appare più che scontato.–
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