la Repubblica, 29 agosto 2019
Conte alla ribalta
Di Maio entra e Salvini esce, ma il traffico nel cortile del Quirinale è regolato dal cerimoniale e dunque solo occhi e per giunta da molto lontano: «C’era tra noi un gioco d’azzardo / ma niente ormai nel lungo sguardo» canta Conte, però Paolo. Non è il Giuseppe Conte di cui Di Maio e Salvini si finsero vice per farne meglio i padroni.
E invece oggi quel presidente, che era vice dei suoi vice, è diventato il padrone a riprova che il sottovalutato è il vero protagonista di questo nostro tempo instabile, vincente al punto che ieri non si è fatto vedere ma ha fatto sapere a tutti che sarà lui a scegliere i ministri e soprattutto i suoi vice: «Non sopporto la definizione Conte – bis, preferisco Conte – due».
È una bella lezione per la politica degli spacconi, dei ganassa e dei folgoranti successi seguiti da rapide morti. Nell’Italia che dopo Renzi sta castigando i bulli Salvini e Di Maio ha vinto l’alter ego, l’ectoplasma, il politico per procura, il quasi premier, il quasi leader, il professore con un quasi curriculum. E ha vinto proprio perché nessuno lo prendeva sul serio.
Il presidente Mattarella ha infatti risolto la crisi convocando per stamattina alle 9.30 il solo che ieri non si è mosso da Palazzo Chigi: di mattina nell’appartamento che resterà suo, e di pomeriggio nell’ufficio che resterà suo. È come il principe di Salina che, sia con i Borboni e sia con i garibaldini, rimaneva sempre nella sua torre a chiedere appuntamenti alle stelle.
E va ricordato che Giuseppe Conte ha vinto coltivando il formalismo come un tic nervoso, un’ossessione, con le giacche di sartoria, la colonia al limone, la lacca nera sui capelli, i gemelli ai polsi, la geometria delle pochette a quattro punte, insomma la cura di sé come ossessione psicosomatica. Conte ha imposto l’aria tranquilla, serena, conversativa, amabile e indulgente anche mentre al Senato picchiava Salvini spiegando con una mitezza da barbiere in contropelo al suo ex alleato tutto quello che i suoi nemici gli avevano invece urlato.
Insomma il protagonista invisibile è, senza precedenti nella storia d’Italia, il primo capo di un governo di destra che, senza soluzione di continuità, diventa capo di un governo di sinistra. Si tratta di un’inedita evoluzione del trasformismo, la più vecchia delle parole magiche della politica italiana, quella che ne acchiappa ancora la sostanza. Fu inventata da Depretis, che nel 1876 accolse la destra di Minghetti nella sua sinistra: «Se qualcuno vuole “trasformarsi” e diventare progressista come posso respingerlo?». Ma Depretis non divenne il suo doppio come sta accadendo a Conte che infatti non ha un gemello con il quale si è scambiato il ruolo. È lui il gemello di se stesso ed entra nella second life senza uscire dalla prima, al termine di una lunga giornata di indolenza romana, scandita dalla liturgia del Quirinale, con le sue bandiere, i suoi corazzieri in divisa, la monotonia del decoro della Sala della Vetrata che da una settimana le tv rimandano sempre uguali, interrotte solo da concitate eccitazioni in strade vuote e assolate, «c’è Cuperlo, abbiamo intercettato Cuperlo con Marcucci», e poi «chiedo la linea, qui sta passando Patuanelli».
Ma diciamo la verità: ci mancheranno queste consultazioni, ci mancherà la virtuosa noia della Sala della Vetrata, dove abbiamo rivisto la politica, anche dura, ma senza i soliti fuori misura e le zuffe quasi fisiche che di nuovo ci aspettano e che spesso disorientano e a volte anche rattristano perché coinvolgono tutti, anche i migliori. Qui al Qurinale non succede.
Ieri mattina Giorgia Meloni, in bianco e rosa, quando è uscita dall’incontro con il presidente, ha detto sorridendo: «Noi andremo in piazza», e persino la parola piazza – «in piazza Montecitorio nel giorno della fiducia» – che alcuni giornalisti le hanno subito contestato, filtrata dalla liturgia, non rimandava alla violenza fisica di Fratelli d’Italia, che tutti sanno maneschi per storia e per antropologia, ma alla piazza dove si mangiano pizze e gelati e si bevono cappuccini, la piazza-caffè della destra. Ero andato dietro a Giorgia Meloni, cercando di non farmi notare, mentre attraversava il cortile e l’avevo vista via via depurarsi, persino fisicamente, dalla ferinità con la quale era entrata: «Cosa gli diremo? Gli diremo che ci siamo rotti il ca…». Insomma gli avvenimenti animati dal rancore dell’Italia irrisolta e dalla competizione più spietata rimandavano immagini civili, da gran teatro, Sempre aperto teatro si intitola il bel libro di poesia sull’Italia di Patrizia Cavalli (Einaudi).
E pensate a Salvini: al mattino su Facebook sembrava un lupo ferito, ma quando è arrivato qui in giacca e cravatta pareva un sincero democratico che legittimamente spiegava le ragioni dell’Italia ultrà che chissà perché considera poltrone i ministeri solo quando vengono occupati dal Pd.
Anche Zingaretti e Gentiloni, che ieri al Quirinale hanno raccontato un’Italia bella e giusta di pura fantasia, devono avere in qualche misura ispirato il modello Conte. Anche loro infatti hanno incarnato, ma a sinistra, la figura affidabile e rassicurante, il sostituto destinato a imporsi esibendo la prudenza come valore, il leader ad interim, il “provvisoriamente al posto di”, il “signor nel frattempo” che, a furia di fare le veci e resistere al fuoco lento con la pazienza dell’arrostito, sale la scala e ascende al soglio, Papa di transizione, miracolato che si mette a fare miracoli.
Di Maio, l’altro bullo sconfitto, per provare che non appartiene all’antropologia della poltrona ieri ha ricordato che Salvini, proprio in questi giorni, gli ha proposto la presidenza del Consiglio e ha citato, nientemeno, Pietro Nenni, l’uomo buono del socialismo: «Qualcuno nella storia ha detto che in politica ci sono sempre due categorie di persone, quelli che la fanno e quelli che ne approfittano». Già in passato Di Maio ci aveva provato con i miti popolari della sinistra che sono assimilabili, con qualche audacia, al populismo: «Il mio modello è stato Pertini» disse una volta. Ma Di Maio, che ha ripetuto di non credere nella differenza tra destra e sinistra, oggi ha lasciato perdere Almirante che in altre occasioni aveva citato tra i suoi miti fondanti. Ed è questo il vero trasformismo, la mitologia à la carte che i grillini internauti direbbero on demand e in italiano si dice “alla bisogna”. Secondo Benedetto Croce, Depretis considerava il trasformismo «il grande nuovo partito nazionale». E Silvio Spaventa, con un linguaggio pre-grillesco scrisse che era «il cesso, che resta pulito nonostante vi passi ogni genere di immondizia».
Di sicuro nella Sala della Vetrata per tutta la settimana non c’è stato più quell’accanimento che trasforma gli uomini in cani, non abbiamo visto l’insalivazione sprizzante e i primi piani di facce feroci, deformate dalla sindrome della diretta. Finalmente non c’era la violenza che si dispiega in Parlamento, nelle piazze e negli studi televisivi, dove la volgarità viene spacciata per vivacità e la calunnia per acutezza.
Persino Berlusconi che ormai è un mito sovrastorico che si infila come Nostalgia di tempi andati che in realtà non furono per niente belli, ha raccolto argomentazioni essenziali confezionate in una relazione scritta di due minuti e mezzo e solo alla fine si è concesso un breve siparietto posando per i fotografi in posa da piccola Buddha.
Il palazzo del Quirinale, che pareva il superfluo e l’inutilmente bello, oggi con la sua storia, i suoi arazzi, la perfezione dei suoi giardini all’italiana, le tende, i lampadari e il suo silenzioso presidente è ormai diventato il bene rifugio dell’Italia malata che il governo giallo-rosso del doppio Conte certamente non guarirà.