Corriere della Sera, 29 agosto 2019
La corte d’appello nega il risarcimento da 800 milioni a Longarini
Sono quasi tre decenni che il costruttore marchigiano, un tempo tra gli uomini più potenti d’Italia grazie alle cifre iperboliche che incassava dalle commissioni che lo Stato italiano e gli amici della Dc gentilmente gli procuravano in nome delle amicizie dentro il partito, si è incaponito di averla vinta. A dispetto della condanna in primo grado a dieci anni di galera, in appello a quattro, fino all’evaporazione del processo in una nuvola di carte bollate. Tre decenni di avvocati, di ricorsi, di verdetti sfavorevoli, di vittorie...
Questa volta, però, gli è andata proprio male. Con una sentenza del 26 luglio scorso la Corte d’Appello di Roma, come ha comunicato trionfante il ministero delle Infrastrutture, ha dato infatti ragione all’Avvocatura dello Stato, da anni impegnata a resistere per conto dei cittadini alle richieste di risarcimento dell’imprenditore. Richieste così esorbitanti che il ministero dell’Economia, in attesa d’una sentenza definitiva dopo un interminabile tormentone processuale, aveva dovuto accantonare, per pagare i costi in caso di una eventuale sconfitta, oltre 800 milioni di euro. Pignorati dall’imprenditore «in forza di lodi arbitrali che ora vengono riconosciuti come nulli» e finalmente sbloccati. Per dare un’idea: si tratta di una cifra pari a quella stanziata tre settimane fa dal ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca per il Contratto Collettivo Nazionale Integrativo 2019/2020. Tanti, tantissimi soldi.
La tragedia
Tutto cominciò con il terremoto del 1972 ad Ancona: la ricostruzione fu affidata a Longarini, detto «Al Cafone», senza indire gare d’appalto
La storia, com’è noto, risale a quasi cinquant’anni fa. Quando lo Stato, per affrontare i danni causati da una interminabile serie di scosse di terremoto nel 1972 ad Ancona e approfittare del disastro per rimodernare la città, decise di recuperare una legge del 1929 coperta da ragnatele, il «piano di ricostruzione post-bellica». Obiettivo: evitare la scomodità delle gare d’appalto (può perfino capitare a volte che le vinca qualcun altro) e affidare tutti i lavori a un solo concessionario, l’amico Edoardo Longarini, detto per i modi bruschi «Al Cafone». Un accordo rinnovato successivamente anche per i lavori da fare sempre nell’anconetano dopo una frana nel 1982.
Come andarono le cose? Non basterebbe un libro, per ricordarle tutte. Un esempio? La sforbiciata al calendario: tolti il Natale, il Capodanno, la Pasqua, la Pasquetta, le domeniche, i sabati, le ferie, il primo maggio, la pioggia, la grandine, le alluvioni, le eruzioni e i maremoti, la società del costruttore poteva lavorare in un anno solo 180 giorni. Col risultato che, dopo aver strappato contratti che arrivavano perfino a 5.250 giorni lavorativi, il concessionario si ritrovò a poter costruire una strada di pochi chilometri avendo a disposizione 29 anni e un mese. Quattro volte più del tempo impiegato per il tunnel della Manica. «Ma tra sospensioni dei lavori e una storia e l’altra», denunciò appena insediato il ministro dei Lavori Pubblici Francesco Merloni, «ho trovato contratti che prevedevano il completamento di un pezzo di arteria in cinquant’anni. Mezzo secolo». Per non parlare dei rincari denunciati dalla Corte dei conti rispetto all’Anas: «Per gli scavi si hanno sovrapprezzi del 258% (sbancamento), 477% (fondazione da 0 a 2 metri) e 156% (fondazione sotto i 2 metri)». E altri dettagli, diciamo così, eccentrici.
Rotto l’accordo suicida col concessionario e respinta la sua offerta di terminare i lavori in enorme ritardo con «solo» 2.000 miliardi di lire (furono finiti con 197: dieci volte di meno), partì fra il costruttore e lo Stato una guerra per tribunali segnata da episodi assurdi. Su tutti, i soliti arbitrati galeotti Stato-privati (come è noto vinti dai privati nel 94,7% dei casi) che videro per la composizione di tre lodi arbitrali (lavori ad Ancona, Macerata e Ariano Irpino) parcelle ai sei arbitri e sei segretari per un totale di 16 milioni e 355mila euro. Dei quali 12 milioni ai tre fortunati (uno scelto dallo Stato, uno da Longarini e il presidente da entrambi) di un solo arbitrato. Chiuso dai tre disinteressati protagonisti con l’ordine allo Stato di versare al costruttore un miliardo e 200 milioni di euro: quattro volte più delle pretese iniziali dell’ex concessionario che erano di 300 milioni. Il tutto a dispetto dell’articolo 41 del decreto legislativo n.163 del 2006. Dove si diceva che «il compenso per il collegio arbitrale comprensivo dell’eventuale compenso per il segretario, non può comunque superare l’importo di centomila euro». Una cifra immensamente più bassa.
Gli sprechi
Dopo ritardi e costi alle stelle, lo Stato decise di rompere l’accordo Solo per il collegio arbitrale la spesa è stata superiore ai 16 milioni
E così, ammucchia e ammucchia, il totale delle pretese di «Al Cafone» nei confronti dello Stato che secondo lui non aveva diritto a chiudere la sventurata stagione del Commissario unico, salì e salì fino ad arrivare nell’estate del 2015, quattro anni fa, a quasi due miliardi di euro. Per l’esattezza 1.888.495.275 euro e spiccioli. Pari grosso modo ai danni subiti dal maltempo nell’autunno scorso da dieci regioni, a partire dal Veneto e dal Trentino sconvolti dal tornado Vaja.
Due anni dopo, nel 2017, arrivò finalmente la prima sentenza in Cassazione. La richiesta di un risarcimento avanzata contro il ministero delle Infrastrutture di un miliardo e passa, richiesta che aveva tenuto per mesi sulle spine l’allora responsabile Graziano Delrio, era respinta. L’altro troncone, per oltre 800 milioni, doveva tornare in appello. Dove, appunto, l’intera somma pretesa dall’ormai ex costruttore è stata infine rigettata. Che sia la volta buona? Può darsi. Ma non è detto. Anzi...